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Se l’altro arriva dal mare

Ancora naufragi con il loro carico di morti, dispersi e sopravvissuti. Sbarchi e operazioni di salvataggio senza fine. Ancora stragi nel Mediterraneo. Centri di accoglienza al collasso. Allarme per le migliaia di profughi in arrivo. Uomini, donne e sempre più bambini, in fuga da paesi in fiamme, da dittature, carestie e catastrofi ambientali, si imbarcano pieni di speranza e con il futuro negli occhi. Sperano di farcela, se pure rinchiusi nella stiva del barcone. Invece, alcuni di loro moriranno asfissiati dal monossido di carbonio del motore o presi a sprangate e accoltellati mentre cercano di salvarsi. Saranno l’orrore negli occhi dei sopravvissuti e dei soccorritori.

Quando le morti si ripetono diventano invisibili. Quando le sofferenze diventano insopportabili al punto da non poterle più immaginare, non si sentono più le grida. A furia di guardare tragedie che si susseguono incessantemente, si perdono le forze. Di fronte alle tragedie quotidiane che segnano la storia dei flussi migratori della nostra epoca è difficile non avere la sensazione della propria impotenza e della propria vulnerabilità. Ma quasi nessuno vuole toccare con mano quella impotenza e così, quando si ha la sensazione che qualunque posizione si assuma o qualunque gesto si compia non sia incidente rispetto al fenomeno, allora scatta un processo di rimozione e di normalizzazione.

Ci si abitua a poco a poco: quello che all’inizio sembrava intollerabile diviene gradualmente sopportabile, fino a diventare normale. Le tragedie diventano routine, cronache ordinarie, qualcosa di consueto a cui non si fa più caso. E mentre distogliamo lo sguardo dalla frontiera del Mediterraneo, mentre non riusciamo più ad attraversare neanche con il pensiero quel confine dove è in gioco ogni giorno la vita di migliaia di persone, le nostre città si infiammano di rabbia e di risentimento ed esplode la violenza.

La scorsa settimana a Pescopagano, nel Casertano, due cittadini ghanesi sono stati feriti alle gambe da un padre e un figlio. In un attimo tornano alla mente le immagini di sei anni fa quando nello stesso territorio, a Castel Volturno, sei cittadini africani furono uccisi a colpi di arma da fuoco. Fu la prima strage mafiosa con l’aggravante del razzismo. Anche allora come oggi scoppiò una protesta violenta fatta di incendi e scontri accompagnati dal balbettio delle istituzioni. Torna alla mente l’uccisione nel 2011 di due cittadini senegalesi a Firenze e torna alla mente con forza Abdul Guibre, cittadino italiano di 19 anni, originario del Burkina Faso, aggredito e ucciso con una spranga da padre e figlio a Milano nel 2008, forse perché aveva preso una scatola di biscotti.

Oggi a Pescopagano ieri a Milano, padre e figlio uniti e complici nella violenza che annulla in un istante ogni passaggio generazionale e interrompe la trasmissione dei valori. Quale testimonianza può esserci se padri e figli insieme impugnano spranghe e pistole per colpire e uccidere il nemico costruito sul mito della guerra, quello della sopraffazione e dell’annientamento dell’altro? Atti violenti e ripetute aggressioni che, quotidianamente riportate dalle cronache dei giornali, ci parlano di un cambiamento enorme della nostra società dove non c’è spazio per il pensiero e il desiderio, ma solo per l’impulso e il godimento immediato. Il passaggio all’atto come assenza del limite che la relazione con l’altro pone è un abdicare al pensiero che ha la funzione di contenere, elaborare, decodificare e quindi progettare. La violenza comincia dove finiscono le parole e cresce dove si interrompe la comunicazione. Non c’è comunicazione quando l’altro scompare dietro a frontiere da difendere e da rafforzare attraverso costosissimi dispositivi di controllo e sistemi di sorveglianza sempre più invasivi e disumani. Non c’è comunicazione quando l’altro scompare dietro a numeri da contenere, limitare, selezionare. Ma è proprio l’altro che arriva dal mare, dopo aver attraversato deserti, a porre oggi qui la domanda sulla vivibilità di un paese e di un continente in cui la rottura del paradigma diritti-responsabilità tocca la vita di ognuno e ognuna di noi. Qual è la vivibilità di un paese dove la frustrazione sociale sempre più grande si incarna in corpi bersaglio, spogliati ed espropriati della propria umanità, ridotti a ingranaggi utili allo sfruttamento e al proliferare di un’economia sommersa e funzionale a un sistema malato?