
Decreto sicurezza: vince la carta della paura
Il provvedimento, ora diventato legge, inasprisce alcune pene e introduce nuovi reati, come “rassicurazione” in un clima di inquietudine sociale: rischia di farne le spese chi è più debole
Il Senato ha approvato la conversione in legge del cosiddetto “Decreto Sicurezza”, la Camera lo aveva fatto il 29 maggio, per cui la norma ora è legge. Il testo è stato duramente contestato dalle opposizioni, da associazioni ed esperti di diritto per l’introduzione di numerose nuove tipologie di reato e per l’aumento delle pene per altri reati. Ne abbiamo parlato con Marco Bouchard, ex magistrato, già presidente della seconda Sezione penale presso il Tribunale di Firenze e sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino, presidente della Rete Dafne Italia, rete nazionale per l’assistenza alle vittime di reato.
– Intanto la formula. Decreto legge invece di iter “normale”, Parlamento svilito ancora una volta, ormai abbondano i casi ma è sempre un brutto esempio di mancata discussione?
«È risaputo che in tutte le democrazie il processo di formazione di leggi generali è sempre più prerogativa del potere esecutivo. L’esempio della presidenza Trump è eclatante. Mi preoccupa molto di più, oggi, la tendenza ad approvare leggi o atti con forza di legge voluti dalla maggioranza politica anche contro elementari principi costituzionali. In questo caso, a esempio, mancavano del tutto i requisiti della straordinarietà e urgenza e l’eventuale dichiarazione di incostituzionalità non potrà sanare gli effetti nefasti che nel frattempo si sono prodotti».
– Il Decreto si occupa soltanto di aumentare il numero dei reati, eppure l’Italia paga multe costantemente all’Unione Europea per le carceri sovraffollate. Contraddizione al solo scopo di lanciare al proprio elettorato un messaggio securitario?
«Qualunque governo di destra (e, con qualche timidezza e imbarazzo, buona parte dei governi di centrosinistra) utilizza la carta della paura per rassicurare le inquietudini sociali, promettendo pene severe ai trasgressori di ogni sorta. Questo decreto – ormai convertito in legge – contiene però un segnale importante diretto non tanto alla popolazione ma alle forze dell’ordine. Le norme prevedono aggravamenti di pena per i reati commessi in loro danno, maggiori poteri nell’esercizio delle attività repressive e la tutela legale (l’avvocato pagato dallo Stato) quando poliziotti o carabinieri siano incriminati per reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni».
– Molti nuovi reati, l’impressione è che si puniscano le categorie più disagiate: accattonaggio, chi occupa case, senza dare risposte strutturali (piano case, lotta alle povertà). È così?
«Questo decreto sicurezza (ora convertito in legge) è un bell’esempio di come le leggi penali vengono utilizzate non per rassicurare le persone che intendono rispettarle ma per promuovere nella cittadinanza delle emozioni e dei sentimenti negativi. A esempio, l’aggravamento di pena per le truffe agli anziani non ha alcun effetto dissuasivo verso i truffatori; al contrario, attraverso la propaganda governativa, si alimenta solo la paura tra gli anziani che, diversamente, dovrebbero essere sostenuti incrementando la loro socialità. L’aumento di pena per l’accattonaggio non protegge in nulla i minori che possono essere utilizzati dai famigliari ma alimenta il disgusto del cittadino “normale” verso quelle persone e quei gruppi umani che sempre più spesso vediamo aggirarsi nelle nostre grandi città alla ricerca di un obolo. L’abrogazione del rinvio obbligatorio della pena per le donne incinte o per le madri di prole inferiore a un anno è stata definita una scelta di politica criminale contro le borseggiatrici. Non c’era bisogno di questa norma odiosa per un fenomeno che riguarda poche decine di persone. In realtà lo scopo è di alimentare lo stigma sociale verso la popolazione rom anche a prezzo di devastare l’infanzia degli innocenti.
Il risultato certo, di cui i nostri governanti sono perfettamente consapevoli, sarà un ulteriore incremento annuale della popolazione carceraria. A partire dall’insediamento dell’attuale governo si è passati in meno di tre anni da 56.000 a 62.000 detenuti, a fronte di un calo del 25% dei reati nell’ultimo decennio (Censis)».
– Viene punita la resistenza passiva, un concetto su cui le chiese, a esempio le battiste americane, hanno fondato parte delle loro proteste in risposta alla violenza. La “resistenza passiva” di Martin Luther King a esempio non significava rinunciare alla propria posizione né accettare passivamente l’ingiustizia, ma resistere in modo non violento per ottenere il cambiamento…
«Questa è la parte più simbolica quanto la meno efficace di tutto il pacchetto. E, forse, la più incostituzionale. Dal punto di vista giuridico il reato di resistenza passiva è una contraddizione in termini perché la resistenza – per essere considerata reato (almeno finora) – è necessariamente costituita da violenza o da minaccia. Se mancano questi elementi non si capisce quale sia e dove stia l’offesa. È la parte più simbolica perché rivela l’anima nera di un governo che non tollera il dissenso, la disobbedienza e la protesta; non sa comprendere la natura profondamente democratica della contestazione pubblica. È la meno efficace perché contiene una sfida alla democrazia che verrà certamente raccolta e il dissenso, la disobbedienza e la protesta non faranno che aumentare. Mi sembra una vera a propria regressione quando agli inizi dell’età moderna vagabondi, mendicanti, streghe ed eretici venivano variamente espulsi, messi alla gogna, eliminati. Cambiano le tecniche ma non gli obiettivi».
– La nuova norma per le detenute madri è compatibile, secondo lei, con i principi costituzionali di tutela della maternità e dell’infanzia (art. 31 Cost.)?
«Al di là della questione di legittimità costituzionale non riesco a capire come mai un governo che si fa alfiere del diritto alla vita del concepito, della genitorialità biologica, dei ruoli famigliari tradizionali e della maternità possa aver partorito una norma così ingiusta e odiosa. L’unica spiegazione che mi posso dare è che considera quelle donne, quei concepiti e quei bambini candidati alla carcerazione come figli di un dio minore o, addirittura, meno umani degli altri, tanto che un esponente della maggioranza ha affermato che il carcere per loro potrebbe essere meglio della vita libera. Dobbiamo, purtroppo, prendere atto che queste disposizioni segnano la fine, in Italia, del principio del “best interest of the child”. Anzi: come temo, la disapplicazione di questo principio solo per alcuni gruppi umani e la creazione di gerarchie sociali sempre più nette tra sommersi e salvati».