Una storia piena di cose belle

Un tesoro perso e ritrovato, l’accoglienza data a persone in fuga, la solidarietà che mette in relazione persone solo apparentemente lontane

Un tesoro se viene nascosto è solitamente perché non venga rubato. Ma può capitare di nasconderlo troppo bene o di dimenticarsene. Può quindi accadere che sia qualcun altro, e non il legittimo proprietario, a scovarlo. «Poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo».
È la parabola del Vangelo di Matteo, capitolo 13. Il Regno dei Cieli è come quel tesoro, ci dice Gesù. Tutto va venduto per ottenerlo.
E se venti secoli dopo chi trova un tesoro lo restituisce al proprietario legittimo ecco che la parabola trova una sua potente attualizzazione.
In tempi di guerre e dolore in troppi luoghi della Terra questa piccola vicenda che veniamo a raccontarvi ci è parsa un’ancora cui aggrapparci. Anche perché abbiamo scoperto che a sua volta ne nasconde molte altre di vicende, grandi al livello più grande, come può essere il salvare la vita al prossimo nostro.

Partiamo dall’inizio, abbiate pazienza.
Ci facciamo aiutare da uno dei protagonisti della storia, il pastore battista Ivano De Gasperis: «Oramai più di venti anni fa, con l’avvio della guerra in Afghanistan voluta dagli Stati Uniti dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, avevamo dato vita a Roma a un progetto di aiuto a persone in fuga dal Paese devastato. Per anni siamo stati nella zona di Piramide e poi abbiamo aperto un centro presso la chiesa valdese della centrale via IV Novembre, dove le relazioni con le sorelle e i fratelli afgani hanno potuto consolidarsi. Gli anni passano, c’è chi trova lavoro, chi cambia città. Arriviamo così al 2021 e all’incredibile ritorno al potere dei Talebani, con il loro carico di morte e terrore da distribuire a piene mani».

Si rimette in moto la macchina della solidarietà. Sono molte le reti che operano in quei convulsi e spaventosi giorni dell’agosto di due anni fa nel tentativo di far uscire dall’Afghanistan chi è finito sulla lista neri degli ex studenti fondamentalisti delle Madrase.
Tramite una di queste vie informali la giornalista Rai Maria Grazia Mazzola viene messa in contatto con una donna che le chiede disperatamente di aiutarla a uscire dal Paese. Sediqa il suo nome: lavorava in progetti di emancipazione femminile nel governo di Kabul prima del ritorno al potere dei talebani. Inoltre era un’attivista, con le sue amiche e compagne di lotta si batteva nelle strade per i diritti delle donne. Basta questo perché l’incolumità sua e della sua famiglia sia fortemente a rischio. Per loro è prevista una sola sentenza: la condanna a morte.
«Maria Grazia, che si è spesa con tutto il cuore, chiede aiuto alla sua chiesa, che era la nostra chiesa, la battista di Trastevere. Cominciamo a scrivere a chiunque per rendere note le necessità. Scriviamo all’Unione battista, alla Federazione delle chiese evangeliche, agli ambasciatori delle nazioni confinanti con l’Afghanistan. Ed è proprio con l’aiuto dell’ambasciatore in Pakistan che troviamo una speranza. La famiglia in maniera rocambolesca riesce a superare il confine e raggiungere Islamabad (il marito di Sediqa nascosto sotto un burqa) e da qui a pagarsi di tasca propria un biglietto aereo per arrivare a Roma e trovare ospitalità negli spazi della nostra chiesa».
La solidarietà è una catena potenzialmente infinita. Le persone aiutate, fatte uscire dall’orrore, lievitano in fretta dalle cinque del nucleo di Sediqa fino al numero di settantadue. Una truppa di ingegneri civili e informatici, psicologhe, dottoresse, infermiere, docenti universitari e quant’altro che avrebbero potuto aiutare il loro Paese in macerie oramai da più di 40 anni.

«Alcuni sono ospitati da altre strutture battiste, altri dai Salesiani, alcuni da una cooperativa. Abbiamo tentato di creare una rete civile di sostegno, che in parte ovviamente già c’era, e trovare risorse. Fra queste famiglie c’è quella di Razia: ora che la struttura che li ha ospitati sta per chiudere, non sapevano dove andare. Avendo noi terminato il periodo pastorale a Roma, pronti a trasferirci a Milano, abbiamo pensato di interpellare l’Unione battista per valutare la possibilità di ospitarli nella casa che stavamo per lasciare e che sarebbe rimasta vuota fino al prossimo giugno. Mia moglie, la pastora Antonella Scuderi, ha preparato un progetto che ha ottenuto un finanziamento da parte dell’Otto per mille delle chiese battiste ed ecco che, grazie alla sensibilità di tutti, è stato possibile accoglierli in quella che era stata la nostra casa. Un finale non scontato perché per le nostre chiese le case pastorali sono una risorsa importante».

La già splendida vicenda di accoglienza viene ora a disegnare una nuova inattesa tela. «Nell’effettuare il nostro trasloco abbiamo smarrito il nostro tesoro, i soldi messi da parte per le cure necessarie a nostra figlia. Non riuscivamo più a trovarli. Domenica 29 ottobre la famiglia di Razia è entrata nella loro nuova casa e nell’effettuare le prime pulizie si è imbattuta nella busta in uno scaffale: era la busta con i nostri soldi. Ci hanno immediatamente contattati per la restituzione. Un finale incredibile in questa storia piena di cose belle. Il Regno di Dio in mezzo a noi».
Ognuno ne tragga la morale che crede. A noi è parso un modo per raccontare che esiste ancora un mondo che, in silenzio e a dispetto di ogni difficoltà, continua a spendersi per il prossimo, il vicino, chiunque esso sia. E che questo gesto si inserisca in quel contesto di cura reciproca.

La missione non è finita. A giugno un nuovo pastore prenderà possesso dei locali e alla famiglia di Razia servirà un nuovo alloggio, servirà la generosità di qualcun altro. Chissà che dal far conoscere questo racconto non possa nascere un nuovo piccolo miracolo.