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Covid e anziani: la Diaconia ieri e oggi

Il 5 maggio l’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato la fine dell’emergenza sanitaria legata alla pandemia di Covid-19 iniziata tre anni prima, in quel terribile 2020 di paura e lutto.

Nelle scorse settimane abbiamo raccontato come le chiese battiste, metodiste e valdesi hanno affrontato l’emergenza e reagito a tanto impellenti novità.

Oggi torniamo a ragionare su quei giorni, analizzando come il comparto socio-sanitario della Diaconia valdese, il braccio sociale della Chiesa valdese – Unione delle chiese metodiste e valdesi – ha organizzato le proprie strutture e attività. Presente in tredici Regioni, il 45% dei suoi oltre 630 dipendenti lavora nel settore sanitario e assistenziale (dati dal bilancio sociale 2021).

«Non c’era nessun tipo di schema che preparava ad affrontare una simile epidemia, non c’erano procedure previste o formazioni specifiche, e quindi le strutture residenziali per anziani si sono trovate scoperte esattamente come tutte le strutture ospedaliere, sotto uno stress molto forte perché era un posto dove la gente moriva» racconta Gianluca Barbanotti che della Diaconia è il segretario esecutivo.

«La pandemia ha sorpreso e stressato tutti. La solidità delle strutture si è basata su due elementi:
la professionalità di operatori, infermieri e Oss, che hanno una formazione di base che permette loro di affrontare situazioni anche con persone contagiose (parliamo per lo più di scabbia e malattie simili, non certo con questo livello di contagio), e la capacità tutta italiana di organizzarsi e di inventarsi soluzioni anche provvisorie, in attesa di indicazioni che via via arrivavano. Questa emergenza ha cambiato le organizzazioni, le ha rese molto più flessibili, mobili (operatori che rimanevano in struttura più giorni per non rischiare di contagiare i familiari, cose impensabili in tempi normali)».

In principio c’è stata l’emergenza pura, paura e incertezza sul futuro.

«I primi mesi avevamo una riunione dei direttori delle varie opere diaconali tutti i giorni dalle 16.30 alle 18 per fare il punto della situazione: quante mascherine erano disponibili, gli isolamenti, cosa accadeva ogni minuto, e anche più di una al giorno talvolta, quando ad esempio uscivano i decreti, per capire come muoverci. Questa primissima fase va ricordata, l’abbiamo rimossa tutti, ma è stata una stagione di emergenza assoluta con le città vuote, salvo gli operatori sanitari».

Poi si è tentato di normalizzare la situazione.

«In qualche modo sì. Nelle case per anziani per esempio abbiamo dovuto muoverci contro la nostra natura: noi lavoravamo da anni per le strutture “senza cancelli”, aperte ai parenti quando volevano, proprio perché gli ospiti si sentissero come a casa propria; da un giorno all’altro abbiamo dovuto chiudere tutto, la gente non poteva uscire dalle camere: un livello altissimo di contenimento, veramente molto forte, al limite direi. C’è da immaginare la sofferenza di anziani o di persone malate, magari affette da Alzheimer, che non capiscono perché ad un certo punto della loro vita devono esser obbligate a portare la mascherina e a non uscire dalla stanza né ricevere nessuno e non vedere più i familiari. Sono morte parecchie persone per Covid, ma c’è stata anche tanta depressione in quel momento, e per i più lucidi anche l’ansia di non sapere cosa poteva capitare ai loro cari fuori.
Poi è chiaro che abbiamo cercato, ad esempio con i tablet e i dispositivi elettronici, di mantenere le comunicazioni, e appena si è potuto abbiamo ripristinato le visite almeno attraverso i vetri. Però è durato mesi e mesi quel periodo terribile».

Molti familiari hanno criticato proprio quel profondo isolamento dai e dei propri cari.

«Sono state scelte fatte dai vari organi nazionali che dovevano gestire l’emergenza e a cui noi ci siamo adeguati, per tutelare la comunità in generale, ma certamente sono state fortemente penalizzate le persone anziane che erano in casa di riposo. C’è stata tutta la fase di demonizzazione delle case di riposo nei primi mesi, era il posto dove ci si ammalava, dove le persone erano abbandonate a se stesse: c’è stato tutto un movimento, non necessariamente spontaneo, di critica feroce alle strutture, che ha messo in discussione le strutture stesse nella loro esistenza».

Come stanno oggi le case di riposo, dopo il Covid e nel pieno di una crisi economica dettata dal caro energia in particolare? v

«Le strutture piccole in Italia sono in grande affanno, con l’inflazione che galoppa e le rette ferme da anni».

Oggi si parla di riforma nazionale dell’intero comparto della “non autosufficienza”.

«Si tratta di una riforma assolutamente necessaria che è stata approvata, ma al momento mancano tutti i decreti attuativi. Sul tavolo però ci sono gli elementi per cambiare il comparto nel suo complesso, per creare un sistema di supporto agli anziani molto articolato, con un percorso che parte dalla prevenzione e prosegue nell’assistenza domiciliare, nei centri diurni e con l’istanza residenziale non certo come l’unica via o come quella privilegiata».

Qual è l’eredità oggi più visibile di quella stagione?

«Sicuramente la pandemia ha modificato sensibilmente e rapidamente la concezione del lavoro in molte persone, soprattutto penso allo smart working e alla conciliazione del tempo di lavoro con il resto della vita di ognuno di noi. Molte aziende stanno ripensando i loro modelli organizzativi. Parliamo ora molto della generazione Yolo- “you only live once”– (Si vive una volta sola): tanti lasciano il posto fisso o modificano i loro carichi orari per provare a seguire i propri sogni e aspirazioni, per tentare a creare un proprio progetto di lavoro e di stile di lavoro. Ci stiamo interrogando anche noi come Diaconia e abbiamo appena organizzato un seminario sul tema, per capire come potremmo ripensare i tempi e gli spazi del lavoro».