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La cittadinanza assediata

Il 6 ottobre 2016 Giorgia Meloni (allora all’opposizione) accusò un governo Renzi-Alfano di «prove generali di sostituzione etnica in Italia»; ieri il ministro dell’agricoltura Francesco Lollobriogida ha ri-proposto il concetto.

Quando si parla di «sostituzione etnica», a cosa ci si riferisce? Perché Elly Schlein afferma che quelle di Lollobrigida sono «parole dal sapore di suprematista bianco»?

«La teoria della sostituzione – si legge sul sito della presidenza del Consiglio dei ministri, spiegazione che riportiamo – è un mito neonazista secondo il quale i bianchi vengono sostituiti dai non bianchi. Spesso, come tante teorie cospirative, in ultima analisi gli ebrei vengono indicati come i veri colpevoli. Oggi la grande sostituzione è un mito della cospirazione di estrema destra, diffuso in Europa negli ultimi anni, composto da due fattori. Il primo sostiene che l’identità occidentale sia sotto assedio da parte di massicce ondate d’immigrazione da paesi non europei, portando ad una sostituzione degli europei bianchi sul piano demografico. Il secondo afferma che questa sostituzione sia stata orchestrata da un misterioso gruppo come parte di un loro grande piano per dominare il mondo – cosa che faranno creando una società totalmente omogenea sul piano razziale. Questo gruppo viene spesso identificato con gli ebrei/sionisti».

Attenzione dunque: già il fascismo, ricordava tempo fa il professor David Bidussa in un bel saggio (Me ne frego – Chiarelettere), prese corpo nello stile e «nella lingua di Benito Mussolini» ancor prima del suo esser duce «tanto nello stile retorico, nell’uso delle forme verbali, nelle modalità del discorso pubblico, quanto nei temi e nelle immagini, che quella retorica acquista già negli anni del suo esordio in politica».

Bidussa ricorda anche che, partendo alcuni concetti e presupposti chiave, quali «l’elogio della teppa, dell’antipolitica, dell’autorappresentazione […] del sovranismo economico e della politica monetaria nazionalista, della famiglia…», Mussolini costruì il linguaggio fascista.

Era il 19 aprile del 1937, quando con il regio decreto legge numero 880 del 1937 l’Italia varò la prima legge di tutela della razza, rivolta in particolare agli italiani che vivevano nelle colonie africane. La legge (un unico articolo) vietava i matrimoni misti e il cosiddetto «madamismo», cioè il concubinaggio con donne africane.

Il decreto, puniva con la reclusione da uno a cinque anni di carcere gli italiani che si «macchiassero del delitto biologico di inquinare la razza» e del delitto morale di «elevare l’indigena» al proprio livello, perdendo così il prestigio che gli deriva dall’appartenenza alla «razza superiore».

Eppure, la comunità scientifica dice che «al termine di decenni di sequenziamento di genomi, incluso quello umano, è oggi provato che gli umani presenti sul pianeta terra condividono lo stesso genoma e che non vi sono differenze in qualità cognitive, morali o di altra natura fisica, riconducibili a una base genomica-deterministica. In parola povere, la scienza ci induce a condividere la celebre risposta, attribuita a Albert Einstein, alla domanda relativa alla razza cui appartenesse. Com’è noto, sembra che la risposta di Einstein sia stata «appartengo all’unica razza esistente: quella umana».

Tuttavia, non esiste una razza. Non esistono razze.

La scienza moderna l’ha ampiamente dimostrato, ma il razzismo continua ad esistere, ben radicato nei sentimenti umani.

Non basta, dunque, pensare che eliminato il concetto di razza, si possa eliminare (già illusione illuminista) il razzismo.

«Com’è noto – ricordano nel volume No razza sì cittadinanza, il professor Carlo Alberto Redi e Manuela Monti – l’articolo 3 della nostra Costituzione recita “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge. Senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Con tutta evidenza – proseguono i due curatori del volume -, i costituenti impiegarono la parola razza per ragioni antidiscriminatorie e non certo in senso divisivo, anche perché la nostra Costituzione è tutta pervasa da principi di uguaglianza».

È un raffinato, ricercato, insieme di parole la nostra Carta Costituzionale. Le parole sono importanti e andrebbero usate con cura, e così i concetti che poi scaturiscono dall’insieme delle parole.

«Noi viviamo di parole – ricorda il giornalista Guido Bosticco nel volume collettaneo appena citato -. Ci chiamiamo, ci avviciniamo e ci allontaniamo, ci obblighiamo gli uni con gli altri attraverso le parole. Condividiamo, separiamo e segreghiamo, includiamo e sfidiamo con le parole. Le parole sono costitutive della comunità, creano relazioni e generano azioni».

Le parole comunicano.

Poco vien detto su quanto stia realmente facendo la nostra politica per quello che consideriamo bene comune, mentre gli slogan (spesso armi di distrazione di massa) son capaci di creare un grande clamore.

Riteniamo però, caduti anche noi nell’inganno, che sia opportuno impegnarsi quando si è chiamati a comunicare (soprattutto se a livello istituzionale).

Se si scelgono certe parole e si affermano concetti come la «sostituzione etnica», o lo si fa scientemente o sarebbe meglio far attenzione, perché la sciatteria e sempre (pronta a colpire) dietro l’angolo.