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Un passo contro la plastica

Negli scorsi giorni si è, giustamente, parlato molto di un voto importante avvenuto presso l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, quando una schiacciante maggioranza di paesi ha condannato l’invasione russa dell’Ucraina, comprese alcune nazioni storicamente vicine al Cremlino.

Ma nel frattempo è invece passata sotto traccia l’approvazione, presso l’Assemblea dell’ONU per l’ambiente (che ha sede a Nairobi), di una risoluzione che potrebbe segnare la storia della gestione della plastica, uno dei segni più profondi e gravi dell’azione umana sulla Terra.

Nel dettaglio, la risoluzione prevede l’istituzione di un comitato intergovernativo di negoziazione (INC) che sarà impegnato a stilare un trattato, giuridicamente vincolante. Entro il 2024 i vari paesi dell’Onu dovranno poi firmarlo. L’entusiasmo è alto e fin da subito sono stati fatti paragoni con l’accordo sul clima di Parigi del 2015, che segnò una svolta (quantomeno teorica) nella lotta al cambiamento climatico.

A rendere questo voto particolarmente solido è un cambio di approccio rispetto alla politica portata avanti finora. In questi anni ci si è infatti concentrati molto sul riciclo e sulla raccolta dei rifiuti in plastica, ovvero attività che, anche se fossero svolte col massimo impegno, avrebbero comunque pesanti limitazioni nel ridurre davvero la quantità di plastica immessa nell’ambiente. Ne è un esempio il crescente scetticismo su alcune rocambolesche operazioni di pulizia degli oceani. Appare quindi sempre più evidente che si debba invece agire con grande attenzione sulla fonte stessa della plastica: la sua produzione, che è proprio al centro della risoluzione.

Il concetto è semplice. Se si crea meno plastica, ci sarà meno plastica da gestire a valle. Ma sfortunatamente la strada rischia di essere più complicata. Perché anche se la stragrande maggioranza dei cittadini sostiene il divieto della plastica monouso, generando pressione sui politici di tutto il mondo, dall’altro lato le grandi aziende petrolifere (“Big Oil”) sembrano già pronte ad osteggiare misure del genere. Come nota Reuters, il fatto che anche i produttori di petrolio (e quindi di plastica) abbiano festeggiato dopo il voto di Nairobi è un pessimo segno. Il timore è che abbiano tutte le intenzioni per fare lobbismo spietato entro il 2024, in modo da annacquare il più possibile il testo finale e non dover quindi rinunciare alla produzione sfrenata di oggetti di plastica. Se possono sembrare timori apocalittici, basta guardare a come gli interessi economici di chi vende combustibili fossili siano diventati uno dei perni della più grande invasione militare dalla Seconda guerra mondiale.

Intanto i segni dell’impatto della plastica sul pianeta continuano a farsi sempre più evidenti. Il WWF pubblica nuovi dati in cui, sostanzialmente, dichiara che l’organizzazione non ha trovato luoghi della terra che non fossero inquinati da queste sostanze. Ma altre ricerche ci dicono anche che, almeno in alcuni ambiti, abbandonare la plastica non comporterebbe grandi sacrifici da parte nostra. Una recente ricerca ha mostrato un dato paradossale: l’imballaggio di prodotti freschi come frutta e verdura tende ad aumentare gli sprechi alimentari, non a ridurli. Il motivo principale è lineare: con questo tipo di imballaggi, tendiamo ad acquistare più ortaggi del necessario, visto che le quantità sono prestabilite e non calibrate ai singoli bisogni. Perciò, si finisce per buttare cibo che altrimenti sarebbe rimasto al supermercato.

In tanti altri settori, eliminare un prodotto versatile come la plastica sarebbe molto più complicato. Ma studi come questo ci mostrano che talvolta l’apparenza può ingannare. E, in ogni caso, non abbiamo più altra scelta, se vogliamo evitare che la catastrofe attuale diventi davvero un’apocalisse.