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Ugo Foà. Il bambino che non poteva andare a scuola

All’indomani della marcia su Roma (28 ottobre 1922), il re Vittorio Emanuele III cedendo alle pressioni dei fascisti, decise di incaricare Mussolini di formare un nuovo governo, grazie al quale il regime iniziò la sua opera di delegittimazione sistematica delle istituzioni ereditate dallo stato liberale. Si deve all’allora Ministro della Pubblica Istruzione, Giovanni Gentile – investito di poteri straordinari concessi dal governo – una riforma scolastica che in pochi mesi riuscì a rafforzare i principi ideologici del fascismo all’interno degli istituti scolastici e pose il mondo della scuola sotto il dominio diretto del regime. Nel giro di pochi anni si concretizzò il progetto di “fascistizzazione” della scuola.

Con la conquista dell’Etiopia, avvenuta nel maggio del 1936 e col rinsaldarsi dei rapporti con la Germania nell’ottobre dello stesso anno, i princìpi delle gerarchie razziali, la politica razzista del fascismo divennero ancora più consapevoli e ufficializzate con la pubblicazione del “Manifesto della Razza” del 14 luglio 1938, esposto sotto forma di decalogo che sarà redatto da insigni scienziati e docenti universitari, che proposero aberranti teorie pseudoscientifiche confluite nella Dichiarazione sulla razza e approvate nell’ottobre del 1938 dal Gran Consiglio del fascismo, con la quale si ponevano le basi giuridiche per la discriminazione degli ebrei. Iniziò il lungo calvario dei bambini di famiglie ebree che vennero espulsi di lì a poco, da tutte le scuole d’Italia e non poterono più frequentare la scuola fino alla fine della guerra. Ugo Foà, terzo di cinque figli maschi, ha dieci anni quando vengono promulgate le leggi razziali: vive a Napoli, nel quartiere Vomero, la sua storia, raccontata in un libro di recentissima pubblicazione (“Ugo Foà. Il bambino che non poteva andare a scuola. Storia della mia infanzia durante le leggi razziali in Italia”, U. Foà, Manni ed., Lecce, 2021) comincia così: «Mi chiamo Ugo, Ugo Foà, un cognome che non si fa fatica a individuare come ebraico. Ne sono stato sempre orgoglioso, tranne in un periodo particolare della mia vita in cui sul registro di classe non ci poteva stare». Abbiamo sentito frasi analoghe tante volte, nei racconti degli ultimi testimoni degli “anni della vergogna” che a tratti appaiono così lontani, con passaggi storici la cui elaborazione critica manca ancora di una lucida “messa a fuoco”.

Leggo il racconto di Foà, scritto con un linguaggio semplice, scorrevole, immediato e sembra che a parlare sia ancora un bambino, quel bambino che attendeva l’inizio del ginnasio per dire orgogliosamente di essere “diventato grande”, e invece tutto svaniva con quel Decreto Legge 1390 che proclamava la “difesa della razza nella scuola fascista”. Incalzano i ricordi, l’inizio della “non-scuola” quella che raccoglieva tutti i bambini ebrei nelle multiclasse che avevano come insegnanti tutti i professori e maestri ebrei esclusi anch’essi da ogni possibilità di insegnamento in tutte le scuole di ogni ordine e grado del Regno d’Italia. «Chi mi avrebbe detto se ero stato promosso, dato che non avrei avuto la pagella?», si chiede il piccolo Ugo; quante incertezze, quante domande lasciate senza risposta.

Nell’estate del ‘39 con il fratello Remo era tornato tra i banchi di scuola per sostenere gli esami da privatista, felice come non mai di ritrovarsi con altri bambini, come dimenticare però in quella circostanza, la scritta in rosso “di razza ebraica” apposta accanto al suo nome, che aveva notato al momento della firma prima di prendere posto accanto agli altri; come dimenticare l’imperativo categorico della presidente di commissione che gli chiedeva di spostarsi all’ultima fila: «Foà, che ci fai lì? Non puoi stare seduto in mezzo agli altri». Numerosi i ricordi legati alla nostalgia della scuola, era tale il desiderio di far parte di essa che spesso Ugo attendeva all’uscita della scuola anche il suo amico Vittorio, per il semplice piacere di «vedere i ragazzini che si spintonavano, che facevano chiasso e giocavano, che condividevano la delusione per un brutto voto, o il timore per un insegnante, o l’ansia per un compito in classe…», e aggiunge «Avrei voluto tanto stare con loro, ma non potevo. Come quando vuoi un bignè con la crema ma non puoi mangiarlo: mi dovevo accontentare di guardarlo in vetrina». 

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La sorte degli ebrei napoletani, in linea di massima, anche se numericamente meno significativa, conobbe la stessa sorte di quella degli altri ebrei italiani in una condizione in cui accanto ad una sostanziale indifferenza per la loro sorte si accompagnarono significativi gesti di solidarietà. Particolarmente importanti nel racconto di Foà sono quelli della prof.ssa Del Val, fiorentina d’origine, incontrata all’esame che chiudeva il ciclo delle medie che gli disse: «Bravo Foà, e bravissimi coloro che ti hanno preparato», si trattava di un messaggio politico di resistenza. Anni dopo si seppe che la professoressa era un’antifascista che militava nella lotta clandestina al regime e che per questo fu catturata, deportata e morì in un lager. O ancora c’è il ricordo del maresciallo Pace che una mattina durante i suoi controlli «colse in flagrante» la sig.ra Giulia che aiutava la sign.ra Foà nelle faccende domestiche (tra le limitazioni  e i divieti previsti dalle leggi razziali del 1938 c’era anche quello che non consentiva alle famiglie ebree di avere domestici): «Signò, e vabbuò, io me ne vaco e torno cchiù tardi (…) stammece accorte», da quel giorno, prima di fare i controlli, il maresciallo avvisava un’ora prima che sarebbe passato, Pace lavorava in questura ma non era certamente un fascista.

Le pagine finali del libro raccontano di una Napoli che vive i bombardamenti, la fame, le fucilazioni, la devastazione e l’occupazione tedesca ma vi è anche la narrazione della prima rivolta popolare in una città italiana, la prima città a liberarsi da sola in Europa: i napoletani, gli studenti universitari, i professori, gli operai e i soldati, le donne e gli scugnizzi, tutti protagonisti di quella che è passata alla storia come le “Quattro giornate di Napoli”. 

Il bambino che non poteva andare a scuola è un testo che si lascia leggere e che merita a pieno titolo di entrare nella narrativa della memoria, un testo che, i giovani a cui è rivolto, sono certa leggeranno accogliendone la storia come se la ascoltassero dal loro nonno; le schede storiche di approfondimento, segnalate in colore azzurrino, che intervallano il testo, sono ottimi strumenti per la comprensione degli eventi che si susseguono nella narrazione.

Il piccolo Ugo che nel 1938 non poteva andare a scuola, di strada ne ha fatta, a scuola ci è tornato e nel 1946 finì il liceo. Ha sempre accompagnato i suoi figli il primo giorno di scuola e poi i nipoti e i bisnipoti e con l’Associazione “Progetto Memoria” dal 1990 è impegnato a portare la sua testimonianza proprio nelle scuole italiane affinché non ci sia mai più qualcuno che dica “il bambino non può entrare!”.

Ogni vita è una storia ed ogni storia è unica; quella di Ugo Foà è al contempo individuale e collettiva, distinta e uniforme che contiene frammenti di passato che sono giunti fino a noi, che ci interrogano da vicino e ci invitano a pensare, che riescono a metterci in relazione con eventi e momenti che altrimenti rischierebbero di essere sepolti o dimenticati. L’era dei testimoni è iniziata da oltre cinquant’anni e forse è entrata nella sua ultima fase, sta a noi la responsabilità negli anni futuri di custodire questo prezioso patrimonio dell’umanità e raccontare alle generazioni del presente e del futuro le voci che hanno avuto l’ultima parola sulla morte.