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L’inverno dei diritti europei passa da Lipa

Lo scorso 23 dicembre l’Europa aveva scoperto ancora una volta l’esistenza della crisi umanitaria delle persone migranti nei Balcani occidentali. Quel giorno, un incendio aveva distrutto il campo profughi di Lipa, in Bosnia-Erzegovina, su un altopiano a 30 km dalla cittadina di Bihac, lasciando almeno un migliaio di persone senza un riparo e, come ormai da tre inverni, senza un’assistenza ufficiale degna di questo nome.

Con l’arrivo della neve, la situazione è diventata ancora più difficile, con migliaia di persone che non hanno accesso ai campi ufficiali, saturi, e l’assenza di nuove strutture. L’incendio di Lipa, infatti, era divampato lo stesso giorno in cui ne era stata annunciata la chiusura dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), l’organizzazione internazionale che lo gestiva, perché il campo era ritenuto inadeguato a ospitare delle persone. Il campo era stato creato come struttura d’emergenza per ospitare circa mille richiedenti asilo, e dopo l’estate era cresciuto fino a ospitare 1.500 persone.

«L’Oim – raccontava a fine 2020 Silvia Maraone, coordinatrice dei progetti lungo la rotta balcanica di Ipsia, l’Istituto pace, sviluppo e innovazione di Acli – aveva già detto che non sarebbe stato in grado di gestire questo campo durante l’inverno perché le condizioni erano inadeguate.Il compito di mettere l’allaccio era del governo bosniaco, che però in tanti mesi non ha fatto nulla». Insieme alle questioni materiali, anche la situazione politica si è deteriorata. «Negli ultimi mesi – prosegue Silvia Maraone – abbiamo assistito anche a una stretta nell’atteggiamento politico da parte dell’amministrazione del cantone di Una-Sana e del comune di Bihac e il governo centrale di Sarajevo», che si è vista in tutta la sua gravità nella mancanza di azioni in merito proprio al campo di Lipa: il governo bosniaco, infatti, non aveva mai provveduto a collegare il campo alle reti idriche, elettriche e fognarie.

Neppure una situazione come questa ha permesso alle persone bloccate in Bosnia di riprendere il loro viaggio per avere almeno la possibilità di presentare la propria richiesta d’asilo in Europa: molte persone che hanno cercato di allontanarsi dopo il rogo sono state fermate dalla polizia e rimandate indietro, perché le autorità locali hanno deciso che i profughi debbano rimanere fuori dalla città di Bihać, mentre la situazione non ha visto grandi discontinuità.

Secondo Oim, l’8 gennaio circa settecento persone sono state sistemate in alcune tende riscaldate allestite in pochi giorni dall’esercito vicino al vecchio campo, mentre più di 350 persone sono state costrette a rimanere in ripari di fortuna dentro Lipa oppure in baracche di legno sparse nel bosco. Si aggiungono ad altre 2.500 persone che nel cantone di Una-Sana vivono al di fuori del sistema di accoglienza, in palazzi abbandonati e in baraccopoli nella foresta.

«C’è un minimo di assistenza, ma al di sotto di ogni pur minimo standard», racconta il giurista Gianfranco Schiavone, vicepresidente di ASGI, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, e parte della rete RiVolti ai Balcani. «Il messaggio che mi sembra che stia arrivando abbastanza chiaro negli ultimi giorni e che tutto finirà così e che lo scandalo di questo campo probabilmente verrà assorbito piano piano nel silenzio e si ritornerà a quella che in fondo è la situazione che caratterizza la presenza dei migranti in Bosnia negli ultimi tre anni, cioè il degrado. Vorrei ricordare che se è vero che in questo periodo la situazione di Lipa è esplosa nei media internazionali per la sua gravità, in realtà tutti questi anni tutte le strutture utilizzate in Bosnia per l’accoglienza dei rifugiati sono in realtà strutture terribilmente degradate, inadeguate e insufficienti come numero. Quindi di fatto è una crisi annunciata da tempo».

Dello stesso avviso è Silvia Maraone, secondo cui «questi sono scenari prevedibili da mesi. Credo che la cosa più grave che sta accadendo in Bosnia-Erzegovina non è quella che sta accadendo adesso, ma è il fatto che è il terzo inverno che la gestione dei migranti lungo questa rotta viene trattata dallo Stato bosniaco e di conseguenza dalle organizzazioni internazionali come un’emergenza. In questi tre anni sarebbe stato possibile cercare un sistema di accoglienza differente. La gravità del singolo episodio erano facilmente prevedibili, al punto che Oim aveva detto già ad aprile che la situazione non sarebbe stata gestibile».

A monte di questa situazione non si trova soltanto la politica locale o quella regionale, ma anche l’atteggiamento europeo. Bruxelles, infatti, spiega Schiavone, «continua con la stessa politica che ha prodotto questo disastro umanitario, cioè quello di confinare le persone in luoghi e Stati che non possono reggere queste presenze. La Bosnia-Erzegovina è forse il caso più evidente, ma non è molto diversa dalla vicenda della Turchia in piccolo. La logica dell’Unione europea è cercare di mantenere le persone lì e respingerle violentemente ai confini: dal dicembre 2019 all’ottobre 2020, quindi in soli dieci-undici mesi, al confine croato-bosniaco sono state respinte oltre 21.000 persone».

Proprio nei giorni scorsi, l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione ha pubblicato una nota molto dura a commento del nuovo patto europeo sulle migrazioni annunciato dalla presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen nel novembre 2020. Mentre secondo la Commissione a cambiare sarebbe stato il paradigma sulle migrazioni, l’impressione è che a cambiare siano soltanto alcune pratiche, senza però mettere in dubbio il modello applicato negli ultimi decenni e in particolare negli ultimi dieci anni. Secondo ASGI, in particolare, la misura di screening all’ingresso che viene prevista dal patto potrebbe andare ad aggravare ulteriormente la situazione dei paesi di confine.

«Nella proposta – chiarisce il vicepresidente di ASGI – si vengono a delineare due assi fondamentali. Il primo è quello che si vede in questo momento in Bosnia, e cioè il tentativo di non fare entrare le persone dell’Unione europea. La maggior parte dell’attenzione che il Patto dedica è ai respingimenti, ai controlli di frontiera e al sostegno ai Paesi terzi affinché facciano ciò che noi non vogliamo fare. Una volta che le persone riescono comunque a entrare, per questa impostazione vanno confinate nel primo Paese di arrivo».

Si tratta di una pratica in aperto contrasto con quanto promesso da anni da Bruxelles, ovvero un sistema di ricollocamento delle persone in tutta Europa, ma è anche «l’applicazione di una procedura di frontiera dove la nozione di frontiera si dilata nello spazio e nel tempo in maniera abnorme. Non si capisce dove finisca la frontiera, è un concetto ormai diventato indefinito, è l’intero paese di primo ingresso che appunto è di frontiera e quindi ora la procedura di frontiera prevede probabilmente il trattenimento, anche in senso di limitazione della libertà personale o di circolazione del richiedente in quel Paese. Inoltre torna la logica dei campi: il richiedente non è regolarmente soggiornante in quel Paese e potrà essere respinto. Di conseguenza, ritorna anche la logica dei respingimenti e delle riammissioni nel caso la domanda venga rigettata. Quindi, addirittura si arriva alla finzione della “non presenza”, come se la persona non fosse mai stata nel Paese neppure in condizione di confinamento, anche se ha finito per viverci mesi o anni».

Sabato 16 gennaio, alle 11, la rete “RiVolti ai Balcani”, costituita nel 2019 da 34 associazioni e realtà impegnate a difesa dei diritti delle persone e dei principi fondamentali sui quali si basano la Costituzione italiana e le norme europee e internazionali, e che da tempo denuncia le condizioni di vita di migranti e rifugiati lungo la rotta balcanica, presenterà la seconda edizione del suo dossier, dal titolo La rotta balcanica. I migranti senza diritti nel cuore dell’Europa. L’evento, trasmesso in streaming sulla pagina Facebook di Mediterranea Saving Humans, si svolgerà sulla nave Mare Jonio, ormeggiata a Venezia, e presenterà i dati aggiornati sulle violazioni in atto lungo le rotte migratorie della penisola balcanica, dalla Grecia alla Slovenia, attraverso il collo di bottiglia della Bosnia-Erzegovina, a partire dalla sua presunta chiusura, avvenuta nel marzo 2016.

Per Gianfranco Schiavone, che ha contribuito alla realizzazione del dossier, si tratta di «una sintesi ragionata delle principali fonti internazionali che hanno parlato di questa vicenda, un’analisi della situazione in tutti i Paesi dell’area e dei respingimenti. È un lavoro veramente venuto molto accurato sul piano della documentazione, sul piano dell’analisi scientifica e che permette anche a chi non parla inglese, visto che la maggior parte delle fonti chiaramente non erano in italiano, di poter leggere sostanzialmente il primo libro disponibile in Italia su questi temi».