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Bambini, adolescenti e pandemia

Delimito il campo: ragionerò sugli “zero-diciotto”. Quelli che vanno a scuola (però alcuni non ci vanno ancora, altri non più), quelli che non votano, quelli che diffondono il virus senza saperlo, quelli che sono stati promossi grazie alla pandemia, quelli che stavano già prima tutto il tempo attaccati allo smartphone e adesso ancora di più… Che cosa pensano gli “zero-diciotto” in questo periodo? Che cosa si porteranno dietro? Che adulti diventeranno, e in che modo l’attuale esperienza li avrà segnati? Già solo soffermarci a pensare e ad ascoltare configura una buona partenza: l’essere umano in formazione chiede sguardi e attenzione, prima che indicazioni e norme.

Diciotto anni sono tanti, soprattutto se sono i primi diciotto della vita (dopo diventa tutto più tedioso e ripetitivo…): ci sono i piccolissimi, i piccoli, poi i bambini delle elementari, i ragazzi delle medie e quelli delle superiori (linguaggio antiquato, si dirà; meglio la moderna limpidezza di “allievi della secondaria di primo grado e della secondaria di secondo grado”).

Dei piccolissimi non preoccupiamoci troppo: per lo più hanno tratto beneficio dalla maggiore presenza dei genitori, il fattore principale che aiuta a crescere. Certo, ci sono genitori e genitori, ma le difficoltà familiari non sono, se non in minima parte, figlie della pandemia. Poi comincia il percorso scolastico, con tutte le sue valenze: si sottolinea spesso il tema dell’apprendimento (“non concluderanno il programma”, “sarà una generazione di ignoranti”..), molto meno si parla di ciò che riguarda la costruzione della personalità. Il distacco dai genitori, l’individuazione, la relazione con i coetanei e con gli altri adulti, l’interiorizzazione delle regole sociali, l’autonomia organizzativa e di lavoro, sono tematiche tutt’altro che marginali, di cui gioverebbe occuparsi oggi per minimizzare la carenza, e domani per recuperare il terreno perduto. Si tratta comunque di percorsi flessibili, che possono accelerare o rallentare in base al contesto e alla situazione: non c’è una deadline per maturare e non sarà un anno di Didattica a Distanza a bloccare irreversibilmente il processo. Succedono però anche cose belle: dopo il primo lockdown, durante il quale i più fragili sono stati i più penalizzati (si pensi all’assoluta inutilità della DaD per un bimbo con autismo o per un grave disabile motorio), in questi mesi si sono costruiti percorsi didattici in presenza per gli allievi con disabilità e con difficoltà di apprendimento. Un’ingiustizia al contrario, insomma, in cui – vivaddio! – la legge non è uguale per tutti, e chi meno possiede, più riceve. Riporto in proposito, con un sorriso, il commento poco grato di una giovane paziente, cui avevo appena illustrato con soddisfazione tale opportunità: “Dottore, però!.. Già sono disabile, mi tocca pure andare a scuola mentre i miei compagni se ne stanno a casa..”

E nel frattempo arriva l’adolescenza, quel complesso periodo che porta quasi inevitabilmente a diventare uomini e donne adulti: dal participio presente, “adolescente”, al participio passato, “adulto”, che un po’ di tristezza la mette. Anche qui propendo per l’ottimismo: è già così complicato diventare grandi, non credo che ciò che stiamo vivendo possa avere un’influenza decisiva sul processo.

Una questione spesso posta è se la pandemia costituisca un evento traumatico, portatore di ansia cronica, di fobie da contagio, di ritiro sociale. Rispondo che per i nostri bambini e ragazzi l’entità del “trauma” non è così rilevante, non è paragonabile all’essere coinvolti in guerre o deportazioni; non c’è (per loro) minaccia all’integrità fisica e il mondo adulto è riuscito sostanzialmente a gestire l’emergenza assorbendone l’impatto ed evitando di riversare angoscia aggiuntiva sui minori. Qualcuno ricorderà, nel film La vita è bella, il padre (Roberto Benigni) che riesce a trasformare, agli occhi del figlio, la sofferenza della vita nel lager in un gioco a premi: la pandemia non è un lager, per quanto male se ne dica.

Preoccupa invece l’accelerazione impressa alla costruzione dell’Homo Technologicus, simbionte uomo-macchina che ci accingiamo a diventare, sviluppo ulteriore del Sapiens. Quale migliore occasione per le grandi aziende tecnologiche per estendere capillarmente il “diritto a Internet”, descritto come bene comune, rimedio contro le disuguaglianze, diritto fondamentale dell’Uomo? E noi a compiacerci del “salto in avanti tecnologico”, del risparmio in trasporti grazie alla didattica a distanza, felici di “colmare il gap che ci separa dai Paesi più avanzati”.

So di essere arretrato e “luddista” (ricordate Ned Ludd, che distruggeva i telai meccanici per fermare la rivoluzione industriale?), ma osservo che l’essere umano nasce e si sviluppa nella vicinanza e grazie al contatto ripetuto e durevole e che, in assenza di questi elementi, si ferma, si ripiega e si ammala. Saranno in grado, gli attuali zerodiciottenni, di recuperare il fascino di uno sguardo, il velluto delle carezze, il brivido di un sussurro? Saranno diventati, dopo il digiuno delle restrizioni, degli affamati di vicinanza, degli abbracciatori seriali, dei consumatori insaziabili di carezze? Oppure semplicemente avranno interiorizzato che “se ne può fare a meno, in fondo siamo sopravvissuti benissimo (grazie alla tecnologia)”? Ai posteri…

Ci sono però anche belle notizie: il limite all’onnipotenza e all’arroganza, della specie e dell’individuo, che il virus ci ha sbattuto in faccia, è un regalo da non sottovalutare, così come l’attenzione al bene comune anziché soltanto al bene individuale (le mascherine proteggono gli altri da me, e non me dagli altri..); la necessità di rinunciare a oggetti o pratiche cui eravamo abituati è stato un buon aiuto a esercitare la resilienza e la creatività.

E infine, almeno per molti, il tempo vacante delle chiusure e degli isolamenti domiciliari: l’otium, così vituperato, ci è stato restituito come obbligo temporaneo. A noi farne tesoro, se ne siamo ancora capaci. Giorni fa ho visto mio figlio diciassettenne seduto in poltrona, con lo sguardo perso, la tv spenta e il cellulare lontano.

«Che fai, Giò? Non stai bene?». «Sto pensando», mi ha risposto.

C’è speranza, per l’umanità..