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Siria. Come sta il nord-est?

Nove anni di guerra e un sistema sanitario al collasso: è una delle tante fotografie che si possono scattare parlando della Siria di oggi. Quando l’epidemia di coronavirus ha cominciato a diffondersi a livello globale, in molti hanno cominciato a temere per aree in conflitto come questa.

La Siria ha registrato il suo primo caso di Covid-19 il 22 marzo, molto più tardi rispetto a diversi Paesi dell’area. Da allora, ufficialmente, sono soltanto 48 le persone positive ai tamponi, anche se è molto difficile tenere traccia dei contagi in un contesto come questo, in cui nove anni di conflitto hanno ridotto ai minimi termini il sistema sanitario.

Se ci si sposta nel nord-est, la regione autonoma a maggioranza curda, il conteggio è ancora più limitato. Qui il primo caso è stato registrato il 20 aprile, e da allora soltanto altre cinque persone risultano positive al test, mentre si è registrato un solo decesso. Al netto dei limiti di questi dati, che esattamente come quelli di gran parte dei Paesi del mondo sono parziali e dipendenti dalla capacità di effettuare e analizzare i test, non si può evitare di porsi qualche domanda. Cosa potrebbe succedere se i numeri crescessero in modo rilevante in un Paese con così gravi carenze nel sistema sanitario?

Inoltre, nello specifico caso del nord-est, l’invasione turca dell’ottobre 2019 ha contribuito allo sfollamento di massa in tutta la Siria nordorientale e al grave sovraffollamento in molti campi sfollati interni che a loro volta hanno portato a sfide relative alla prevenzione e al controllo delle infezioni.

Nella regione il coprifuoco era stato introdotto in maniera preventiva da parte dell’amministrazione autonoma a metà marzo, quando ancora non erano stati registrati o comunicati casi sul territorio. «C’è stato anche un problema relativo alla comunicazione degli esiti per quanto riguarda alcuni casi sospetti e questo ha contribuito a creare un periodo di caos e di destabilizzazione per quanto riguarda soprattutto la gestione dell’emergenza», racconta Sara Montinaro, project manager di Heyva Sor a Kurd‎, la Mezzaluna rossa curda.

Oggi qual è la situazione rispetto all’inizio dell’emergenza?

«Al momento la situazione è molto diversa, nel senso che nel frattempo la self Administration è stata in grado di acquistare un macchinario PCR per fare le analisi di tamponi. C’è stata una risposta immediata all’emergenza e quindi con Heyva Sor‎ abbiamo iniziato a costruire tutta una serie di strutture sanitarie. Perché siamo al nono anno di guerra qui in Siria, il sistema sanitario è completamente al collasso. Quindi di fatto siamo dovuti partire da zero e con l’aiuto della self administration e degli altri attori locali che sono sul territorio siamo riusciti a costruire una serie di meccanismi a diversi livelli, dagli ospedali alle cliniche ai campi profughi stiamo costruendo questo sistema che in qualche modo dia una risposta e una prevenzione sia in termini di prevenzione ma anche in termini di gestione di quella che è l’epidemia».

Quasi tutti i Paesi del mondo, a diversi livelli, si sono fermati imponendo misure di distanziamento sociale per contenere la diffusione del virus o limitarne l’impatto. Come ci si sta muovendo nel nord-est siriano?

«Al momento il coprifuoco è stato ridimensionato e questo è dovuto ad una profonda crisi economica del territorio da un lato e anche dal fatto che i numeri per quanto riguarda i contagi nel nordest della Siria sono bassi. In questo momento ci sono sei casi, dei quali un decesso, due ricoverati e tre in isolamento. Siamo stati fortunati ma anche bravi, nel senso che tutti questi casi appartengono ad un unico cluster nella città di Hasakah. All’epoca c’era il coprifuoco e quindi è stato introdotto il lockdown del quartiere e anche della città e questo ha permesso di evitare ulteriori contagi. Con Heyva Sor a Kurd‎ abbiamo distribuito più di 500 kit nel quartiere all’interno del quale c’erano stati casi, kit con mascherine, disinfettante e altri elementi per quanto riguarda l’igiene personale in modo da evitare appunto che ci fosse un ulteriore contagio. Noi comunque stiamo continuando a costruire tutte quelle che sono le strutture che ci possono aiutare a “combattere” l’emergenza nel momento in cui si presenterà, perché siamo consapevoli che se non ora ma magari fra un paio di mesi arriveranno di nuovo contagi, quindi fino ad ora abbiamo costruito un ospedale Covid specifico a Washokani, un ospedale che andrà a trattare i casi moderati, stiamo costruendo accanto un’altra ala relativa alle terapie intensive, quindi ventilatori e terapie intensive. Al momento purtroppo in tutto il Nord-Est ci sono solo tra i sei e i dieci ventilatori attivi per una popolazione compresa tra quattro e cinque milioni di persone».

Alla fine di aprile Human Right Watch, così come numerose altre organizzazioni internazionali, aveva lanciato l’allarme per la difficoltà di accesso all’area per gli aiuti umanitari. Di che difficoltà parliamo?

«Stiamo parlando con l’Oms per capire se ci possono dare una mano, perché da quando hanno chiuso il gate di Yarobiyeh a gennaio con una risoluzione delle Nazioni Unite non arrivano più gli aiuti umanitari. L’Oms ha inviato 20 tonnellate, ma ancora non tutto il materiale è pervenuto e tra l’altro 20 tonnellate per una per una crisi epidemica sono davvero pochi. Quindi stiamo cercando di attivarci su tutti i fronti per capire come rimediare, anche finanziariamente, la possibilità di aprire altri ospedali Covid, soprattutto abbiamo bisogno di ventilatori.

All’interno del territorio ci sono dei progetti per aprire degli ospedali anche nelle città di Raqqa, di Manbij e di Kobane e stiamo cercando di continuare appunto nella prevenzione e nell’informazione tramite volantini distribuiti nei negozi, oppure nei checkpoint, sono state fatte interviste, trasmissioni radio ma anche in televisione, il tutto per cercare di sensibilizzare le persone alla prevenzione, perché vista e considerata la situazione, la prevenzione è l’unica arma che abbiamo in questo momento. Bisogna fare davvero tanto, però ci sono gli elementi per poterlo fare. Ora abbiamo attivato anche delle campagne di crowdfunding proprio soprattutto per costruire degli ospedali, perché in questo momento c’è il problema sia relativo alla gestione di casi medi ma anche relativo all’assenza totale di ventilatori e quindi di terapie intensive all’interno del territorio».

È importante fare un passo indietro nel tempo e tornare all’ottobre del 2019, quando la Turchia avviò l’operazione militare “sorgente di pace”. Come un fulmine a ciel sereno per gran parte dell’informazione, il nord-est della Siria, quell’area che “aveva respinto l’Isis a Kobane” e che sembrava lontana dal cuore della guerra siriana, tornava a essere una linea del fronte. A oltre sei mesi di distanza, cosa rimane di quell’operazione militare e di quel conflitto nel conflitto?

«Effettivamente l’occupazione della Turchia all’epoca fu inaspettata. Questo ha creato una serie di instabilità all’interno del territorio e da diversi punti di vista. Innanzitutto, la guerra continua ad esserci. È una guerra a bassa intensità, ma lungo il confine continuano ancora degli scontri e questo comporta tutta una serie di problematiche relative anche alle emergenze sanitarie. Grazie soprattutto a un progetto con la Chiesa valdese siamo riusciti a distribuire tutta una serie di kit alle persone rifugiate che scappavano: l’occupazione era cominciata a ottobre, quindi in pieno autunno e inverno, per cui la distribuzione di kit con coperte e altri materiali era davvero necessaria e indispensabile per la sopravvivenza di queste persone. Nel frattempo siamo riusciti ad attivare un percorso con le ambulanze per quanto riguardava appunto i casi emergenziali all’interno di quel territorio e questo ci ha permesso di salvare davvero tante vite. E gli aiuti con i medicinali che sono stati dati ci hanno aiutato a rispondere all’emergenza immediata dovuta all’occupazione».

Che cosa è successo a chi è scappato dal conflitto durante quell’attacco?

«A distanza di sei mesi tutti i profughi che sono arrivati da quelle zone sono soprattutto nella zona di Hasakah. Molti vivono nei campi profughi, ma tanti altri, la maggior parte, vivono in alcuni campi informali all’interno della città. Nella sola città di Hasakah si contano più di 54 campi informali, tendenzialmente parliamo di scuole o palestre, questo tipo di edifici, che sono stati adibiti appunto per l’emergenza ad ospitare queste persone. La maggior parte di questi luoghi non sono adeguati, ci sono gravi carenze igienico-sanitarie elevate e quindi stiamo cercando di rispondere sia a questo tipo di esigenze sia a quella legata al coronavirus».

All’inizio di maggio l’agenzia stampa curda ANHA denunciava la pratica della Turchia, che occupa parte dell’area, di controllare il flusso dell’acqua. Che impatto ha questa azione?

«L’occupazione della Turchia nello scorso autunno ha visto anche l’occupazione di una diga, la diga di Alouk. Da allora, già sei volte la Turchia ha interrotto in modo assolutamente arbitrario l’utilizzo della diga impedendo l’accesso all’acqua a circa 6-700 mila persone nella città di Hasakah e nel governatorato di Hasakah. L’acqua già di per sé è un bene primario, oggi per esempio ci sono 34 gradi, in più con la crisi dovuta all’epidemia e a possibili contagi non avere l’acqua può diventare molto molto problematico. Sia le Nazioni Unite che l’Unicef hanno più volte fatto appelli chiedendo che questa pratica non venga ripetuta. Stiamo a vedere, speriamo che non accada più, però sappiamo che questo potrebbe accadere. La situazione continua ad essere molto instabile».

Di fronte a questa emergenza, moltissimi Paesi si sono trovati impreparati su vari livelli. Per la regione del nord-est siriani quali sono le criticità maggiori in questo senso?

«Partendo dal presupposto che siamo in un contesto in cui ci sono stati nove anni di guerra e quindi appunto non esiste un sistema sanitario nazionale c’è un problema relativo a una mancanza di strutture sanitarie adeguate. C’è anche un problema di carenza di medici e di infermieri pronti per questa specifica malattia. Su questo stiamo organizzando dei training specifici per la gestione delle terapie intensive, per i casi moderati, ma anche per l’igiene e le pulizie. Siamo in un contesto in cui c’è una crisi economica profonda e questa potrebbe creare anche ulteriori problemi in una situazione in cui continua ad esserci un conflitto e instabilità

C’è poi un problema per quanto riguarda il numero di kit. Ne abbiamo solo 1.500 a disposizione per fare le analisi, un numero davvero molto basso. Abbiamo costruito delle task force specifiche sul Covid in ogni città, che si coordinano tra di loro sia per quanto riguarda il triage ed eventualmente le modalità di gestione dei pazienti. Sono stati costruiti dei luoghi di isolamento per le persone che ne avranno bisogno e all’interno di ciascuna struttura sanitaria in tutto il Nord-Est della Siria e anche all’interno di campi profughi ci sono dei luoghi per accogliere le persone che hanno dei sintomi. Nel frattempo, per esempio, anche per entrare nei campi profughi ci sono persone che controllano la temperatura, in modo da individuare eventuali asintomatici. Queste, assieme a tante altre attività, sono degli esempi di come cerchiamo di costruire un sistema che possa “tenere botta” ad un eventuale contagio. I problemi sono tanti, devo dire però che fino ad ora abbiamo fatto un grande lavoro. Abbiamo introdotto un numero verde per l’emergenza, quindi ora in tutta l’area del Nord-Est c’è un numero al quale fare riferimento per cui chi ha dei sintomi o chi vuole avere maggiori informazioni sul Covid chiama noi, nel momento in cui ci dovesse essere qualcuno che appunto ha dei sintomi ci organizziamo per fare immediatamente una visita con dei dottori e da lì se questi sintomi risultano reali si passa appunto al fare le analisi, prendere un campione e fare le analisi».

In Italia esiste una rete di supporto all’autonomia del nord-est siriano, e in particolare anche una sede della Mezzaluna rossa curda, che ha avviato una campagna di donazioni e sostegno alle attività della Heyva Sor a Kurd. Da qui è possibile supportare le azioni di emergenza in un’area che, nel contesto di un conflitto di lunga durata, gioca un ruolo fondamentale.