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L’Italia che ritrova se stessa nei drammi

Paisà è un film che ha del miracoloso: non solo e non tanto perché girato su luoghi reali e realmente semidistrutti; né perché impiega attori non professionisti. Siamo nel 1946: nell’Italia appena uscita dalla guerra Roberto Rossellini gira il capolavoro del neorealismo strutturandolo come una risalita del Paese attraverso sei tappe, seguendo l’avanzata delle truppe di liberazione, angloamericani e partigiani. Episodi molto diversi fra loro, che però hanno dato luogo a un’opera pervasa da uno spirito unitario: situazioni narrative anch’esse molto diversificate, divise fra storie collettive e personali, anche amorose, come il legame fra un soldato americano e una ragazza sugli scogli della Sicilia; o l’amicizia tra uno scugnizzo napoletano e un soldato nero americano ubriaco; una prostituta che a Roma incontra un militare, in realtà già conosciuto; un’infermiera inglese alla ricerca del comandante partigiano che aveva conosciuto, nella Firenze divisa in due dal conflitto; in ultimo l’episodio più angosciante, che però preludeva alla Liberazione, girato sul Delta del Po, dove angloamericani e partigiani insieme combattono fra le paludi alcune delle pagine più tragiche.

Abbiamo lasciato indietro il quinto episodio, che ha per ambientazione un convento di frati francescani sull’Appennino emiliano. Merita qualche riga in più: al convento giungono infatti tre cappellani militari americani, accolti con affetto dai frati. L’incertezza e lo smarrimento si fanno sentire tra loro, tuttavia, quando il cappellano cattolico, un prete che parla un buon italiano, spiega ai francescani che i suoi colleghi sono uno protestante e l’altro ebreo. Sono momenti di paura, di sincera preoccupazione, al di là della guerra, per le anime dei due americani, visti come inevitabilmente “perduti”. Era lo spirito dell’epoca, di chi magari era nato sul finire del secolo XIX. Noi conosciamo una realtà ben diversa, ma la delicatezza con cui Rossellini tratteggia l’ingenuo timore dei frati fa tutt’uno, poi, con la loro disponibilità, in preghiera, a veder superata quella loro convinzione. A suo modo, un episodio che trasuda speranza.

Torniamo però volentieri al quarto episodio, quello fiorentino. L’infermiera inglese dovrebbe passare dalla città liberata, cioè i quartieri Oltrarno, al centro ancora in mano ai nazifascisti. I ponti erano stati abbattuti. I tedeschi per mesi e mesi non si accorsero che un passaggio in realtà c’era, e i resistenti lo usavano, eccome. Era il Corridoio Vasariano annesso alla Galleria degli Uffizi, che in oltre 700 metri di sviluppo, arrivando dal Giardino di Boboli e da Palazzo Pitti, passa sopra Ponte Vecchio, corre parallelo all’Arno per un considerevole tratto, e poi si ricollega a Palazzo Vecchio, in piazza della Signoria. Una vera e propria galleria museale, dove centinaia di opere, soprattutto statue, erano state messe in sicurezza, foderate e protette per evitare che le deflagrazioni le distruggessero. Da qui passano dunque l’infermiera inglese e il partigiano che l’accompagna: in una lunga breccia di artificioso silenzio, rispetto alle mitragliate, le grida, i drammi del “mondo di fuori”. Le statue non le vediamo, ma avvertiamo il valore della memoria che accoglievano e ancora accolgono su di sé, la memoria di secoli che appartengono a tutti e tutte.

Curiosamente, parallelo al ruolo di questa struttura architettonica, che – virus permettendo – dovrebbe essere aperto al pubblico nel 2021 proprio come sede espositiva, abbiamo anche un’altra affascinante vicenda. È quella che ci viene raccontata dallo storico metodista Giorgio Spini (1916-2006), l’autore della Storia dell’età moderna, ma anche di Risorgimento e protestanti. La sua storia ha una parte rilevante nel racconto autobiografico La strada della Liberazione. Dalla riscoperta di Calvino al Fronte della VIII Armata (a cura di Valdo Spini, Claudiana 2002): l’VIII Armata è quella in cui egli, giovane luogotenente reclutato dalla Italian Force nel 1944, svolgeva compiti giornalistici e di traduzione, grazie alla gran padronanza della lingua inglese. Perché altre delle opere celeberrime ospitate agli Uffizi, erano state messe in salvo nel castello di Montegufoni presso Montespertoli, dove proprio Spini con i soldati britannici rinvenne capolavori come la Battaglia di San Romano di Paolo Uccello (il quadro che si dice abbia dato vita alla tecnica della prospettiva), la Madonna di Giotto, la Primavera di Botticelli. Trovarli accatastati alla meglio, ma pur sempre in salvo, fu una sorpresa.

Insomma, c’era nel racconto di Giorgio Spini, così come nel capolavoro di Rossellini, la consapevolezza che l’Italia in difficoltà (allora la guerra di Liberazione, oggi il Coronavirus) salva sé stessa anche riconoscendo le proprie qualità: l’arte, l’amore per il bello, e l’affratellamento solidale di regione in regione, alla faccia di chi pensa che la Penisola sia una costruzione artificiosa e burocratica voluta dai Savoia prima e mantenuta da “Roma ladrona” dopo. L’Italia scopre di poter essere unita quando è in sofferenza e sotto minaccia: ciò dovrebbe far riflettere, ma intanto facciamo leva, per scoprire i capolavori degli Uffizi e Corridoio Vasariano e anche del nostro cinema, sulle testimonianze come quella di Giorgio Spini. Fra l’altro, la Cineteca di Bologna, come altre istituzioni e la stessa Rai, proprio per venire incontro alla “casalinghitudine” forzata di queste settimane, danno libero accesso a un grande patrimonio cinematografico. È il momento di vedere o rivedere grandi film, a cominciare da Paisà.