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Quel difficile passo oltre il confine

La fotografia della bambina salvadoregna annegata insieme al papà nel tentativo di attraversare il Rio Grande per entrare negli Stati Uniti ha suscitato sconcerto nei media e nell’opinione pubblica, ma chi lavora ogni giorno sulla frontiera sa che questo non è il primo né l’ultimo tragico episodio. Nelle stesse ore in cui venivano ritrovati Oscar Alberto Martinez e la figlia Angie Valeria, gli agenti individuavano altri quattro morti, una donna e tre bambini tra cui un neonato, uccisi probabilmente dalla disidratazione.

I volontari della United Methodist Church, attraverso la United Methodist Immigration Task Force operano da tempo sul confine e accusano una politica migratoria che sta portando a tali scelte disperate. Nel 2019 quasi mezzo milione di persone è stato fermato al confine sud statunitense.

Se negli Usa la richiesta di asilo è un diritto per chiunque, in modo legale o meno, riesca a “mettere piede” oltre confine, dando alle leggi il compito stabilire se la persona ha diritto allo status di rifugiato o no, la questione è che è diventato difficile, se non impossibile, mettere quel piede negli Stati Uniti. Dalla primavera del 2018, l’amministrazione Trump ha cominciato a collocare agenti di frontiera a metà dei ponti internazionali per bloccare l’accesso, ad esempio sul Rio Grande tra Matamoros e Brownsville, Texas. Viene stilata una lista in ordine di arrivo, c’è chi scrive i numeri direttamente sulle braccia delle persone, altri danno loro dei pezzi di carta. I migranti la chiamano proprio “La Lista” e sanno che una banconota agli agenti messicani può facilitare le cose: sul confine di Brownsville chi non ha i soldi finisce in fondo alla lista o viene respinto. 

Le chiese metodiste sono attive insieme a organizzazioni cattoliche come il Humanitarian Respite Center di McAllen, per offrire conforto, cibo, vestiti e medicine, ma anche aiuto spirituale e sostegno legale alle migliaia di persone nella lunga attesa al confine. Negli ultimi tre mesi il United Methodist Committee on Relief (Umcor) ha distribuito 46.128 kit igienici in sei rifugi provvisori gestiti dalle chiese lungo il confine, e fornito borse di studio per un valore di 294.345 dollari, oltre a seguire diverse iniziative di tutela dei diritti legali dei migranti, ma accusa di non avere accesso ai centri di permanenza e che i tentativi di fornire beni di prima necessità sono stati respinti. Denunciano peraltro le condizioni inaccettabili in cui sono trattenuti i minori, separati dai genitori, un atto inumano che il United Methodist Board of Church and Society chiede al Congresso e al presidente Trump di fermare, invitando tutti (compresi i bambini) a scrivere al governo per richiedere un’immediata riforma della legge sull’immigrazione. 

Pressione sul governo arriva anche dalla Chiesa episcopale, che ha intensificato la propria attività di advocacye sensibilizzazione sui temi delle deportazioni, degli aiuti umanitari ai confini e del trattamento dei bambini nei centri di detenzione, in particolare, di fronte all’annuncio di una serie di “raid federali” (tecnicamente Illegal Immigration Removal Process), previsti in 10 città per domenica 23 giugno, che avevano gettato circa 2000 famiglie di persone senza documenti nella paura. All’ultimo minuto sono stati posticipati con un Tweetdel presidente Trump, «su richiesta dei Democratici […] per vedere se Democratici e Repubblicani riescono a mettersi insieme e produrre una soluzione ai problemi sul confine meridionale. Altrimenti, le deportazioni cominceranno!».

Diverse autorità (il vescovo di Chicago, una delle città coinvolte, la vescova dell’Arizona) hanno diffuso dichiarazioni personale per denunciare le condizioni dei bambini “detenuti” e la separazione delle famiglie, e il 6 giugno numerosi leader cristiani (di varie denominazioni), musulmani ed ebrei avevano sottoscritto un messaggio ribadendo il proprio impegno a offrire rifugio e protezione alle persone migranti, impegno che anche l’amministrazione dovrebbe mantenere. 

Lo stesso impegno nella protezione dei diritti dei migranti, e la stessa denuncia per il «trattamento disumano» cui sono sottoposti, arriva da una dichiarazione del Racial Equity Advocacy Committee (Reac) della Chiesa presbiteriana (PcUsa) diffuso lunedì 24 giugno. Il comitato si dichiara «solidale con i richiedenti asilo e rifugiati dall’America centrale, Africa e altre parti del mondo, in prevalenza persone di colore, che arrivano ai confini meridionali degli Usa. [Essi] cercano semplicemente di esercitare i loro diritti all’interno della normativa internazionale e Usa, scappando da violenza, sconvolgimenti politici, estrema povertà e scarsità di cibo causate dagli interventi e dalle politiche economiche degli Usa, oltre che dal cambiamento climatico». Il Reac esorta le chiese a chiedere con forza un trattamento umano e a condannare determinate azioni come la separazione delle famiglie e la negazione di beni fondamentali come acqua, cibo e medicine. Cita inoltre la lettera indirizzata a metà giugno al Congresso dal past. J. Herbert Nelson, Stated Clerk della General Assembly, massima autorità della PcUsa, in cui richiama alla responsabilità verso i bisogni di persone traumatizzate, in fuga dalle violenze, spesso vittime di tratta.