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Facebook chiude 23 pagine italiane. Una buona notizia con molti “ma”

Dagli e dagli, qualche buona notizia arriva anche dal fronte dei social. Perché va salutato con favore l’annuncio di Facebook di aver chiuso, a due settimane dal voto europeo, 23 pagine italiane che raccoglievano quasi 2 milioni e mezzo di followers.

Pagine per buona metà dal preciso profilo politico – erano voci “ufficiose” a sostegno di Lega e Movimento Cinque Stelle – e dai contenuti fake altrettanto precisi: non falsità generiche, ma pseudo-notizie mirate contro i migranti, contro gli ebrei, contro l’utilità dei vaccini, contro Roberto Saviano. Bene che Facebook abbia dato concretezza, per una volta, ai ricorrenti mea culpa di Mark Zuckerberg. Bene che lo abbia fatto prestando ascolto alla documentata denuncia di una voce storica in tema di diritti dell’epoca digitale come Avaaz. Bene che sia stata capace di mostrarsi così reattiva da assumere la decisione in nemmeno dieci giorni da quando la contestazione è arrivata.

Qui però i motivi di soddisfazione si esauriscono, e lasciano il campo a più rilevanti ragioni di inquietudine che anche dalla “buona notizia” emergono. E’ evidente, infatti, la straordinaria facilità con la quale è oggi possibile inquinare il processo di formazione dell’opinione pubblica, e dunque letteralmente avvelenare le competizioni elettorali. E’ allarmante la sproporzione di forze tra chi lavora in modo organizzato a seminare odio e il generoso volontariato di coloro che provano a fare pulizia. E’ preoccupante pensare che gli ‘inquinatori’ possano cavarsela semplicemente con la chiusura delle loro pagine, senza pagare pegno giudiziario.

E una domanda si impone su tutte: è mai possibile che sia rimesso al “buon cuore” di Facebook – cioè di un soggetto privato – la circolazione più o meno regolare delle informazioni, cioè il funzionamento del sistema nervoso di una democrazia? Non vogliamo un pericoloso “Ministero della Verità Ufficiale”, lo abbiamo detto molte volte. Ma questo significa allora che le istituzioni pubbliche non debbano nemmeno provare a mettere il naso in attività tanto decisive per la qualità della vita collettiva?

Attendiamo con fiducia che entri in vigore il Regolamento di contrasto ai discorsi d’odio che sta mettendo a punto da qualche mese l’Agcom, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni. Importante perché, per la prima volta, anche i giganti digitali che gestiscono i social saranno chiamati in causa non occasionalmente, ma dovranno fornire un loro “report trimestrale sul monitoraggio effettuato per l’individuazione dei contenuti d’odio on line”. Questo livello di iniziativa giuridico-istituzionale è doveroso.

Nessuno si illude, però, che la marea montante dell’hate speech possa calare ed essere prosciugata senza un grande sforzo di comunicazione, di educazione, di formazione, che penetri nelle pieghe della nostra società in maniera eguale e contraria a quanto sanno fare i predicatori di odio. E’ questo il senso della Carta di Assisi: non un nuovo documento deontologico per i giornalisti, ma l’appello a tutti noi cittadini, comunicatori a tempo pieno, a coinvolgerci in una vera e propria battaglia di civiltà, per riannodare i fili della convivenza contro chi lucra sulle lacerazioni sociali più violente. Sta a noi tutti farla vivere e crescere, nelle prossime settimane, in decine di iniziative in giro per l’Italia: nelle scuole e nelle università; e magari anche in qualcuna di quelle periferie dove altri stanno seminando paura e violenza.

Tratto da articolo21.org