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Un Paese sessista

L’Italia è un Paese sessista che fa fatica a cambiare e a intervenire nella tutela dei diritti delle donne e nella prevenzione della violenza. Ad affermarlo è il Rapporto ombra per il GREVIOredatto da associazioni ed esperte sui temi della Convenzione di Istanbul, coordinate dalle avvocate Elena Biaggioni e Marcella Pirrone di D.i.Re. e presentato martedì 26 febbraio a Roma con la partecipazione di Raffella Palladino, presidente di D.i.Re e di Linda Laura Sabbadini, statistica ed editorialista de La Stampa.

Il rapporto è stato inviato al Gruppo di esperte responsabile del monitoraggio dell’attuazione della Convenzione di Istanbul, che visiterà il nostro Paese dall’11 al 21 marzo per monitorare e confrontare quanto il Governo sta facendo in tema di prevenzione e contrasto alla violenza contro le donne.

Ratificata dall’Italia nel 2013, la Convenzione di Istanbul è «il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza» ed è incentrata sulla prevenzione della violenza domestica, per proteggere le vittime e perseguire i trasgressori. Inoltre, nel testo si fornisce una definizione di genere come «ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini». La sua ratifica all’inizio della scorsa legislatura, racconta Marcella Pirrone, membro direttivo di WAVE Women against violence Europee avvocata della rete dei centri antiviolenza Di.Re., fu «un passo molto importante». «La Convenzione di Istanbul è uno strumento legislativo che rappresenta un quadro molto organico di misure, raccomandazioni, obblighi, da mettere in atto per contrastare la violenza di genere in Italia  tutti i livelli, in vari ambiti, dall’educazione alle scuole al linguaggio dei media, dai servizi che offrono protezione e tutela in ambito sanitario e sociale alle forze dell’ordine e alla giustizia».

L’Italia ha predisposto sin dal 2011 dei piani di azione triennali che dovrebbero servire a tradurre in pratica quanto contenuto nella Convenzione, ma a oggi non sembrano essere adeguati. «Soprattutto il terzo piano – spiega Pirrone – non ha nessuno stanziamento: neanche un euro. La Corte dei Conti, che sicuramente non è un organo femminista o di parte, ha fatto un’analisi di quanto è stato finora stanziato dai governi italiani anche attraverso i finanziamenti alle regioni e agli enti locali e il calcolo che esce fuori è 6.000 euro all’anno per ogni centro».

È soltanto una questione di stanziamenti, quindi?

«No, se fosse solo quello avremmo altri ambiti di cui possiamo dichiararci soddisfatti. Invece quello che caratterizza molto l’Italia rispetto agli altri Paesi europei è una criticità della cultura, una cultura sessista che si vede in tutti i linguaggi: dei media, dei politici, delle scuole che non ammettono ancora un certo tipo di educazione rispetto ai ruoli tipici da bambino e bambina. Questa rigidità degli stereotipi porta alla disparità di potere e alla violenza».

Ritiene invece che le leggi siano adeguate?

«Da un punto di vista formale abbiamo buone leggi, quindi come Di.Re. non condividiamo questa continua richiesta dei politici di nuove norme d’emergenza. Non è questo che manca: le leggi ci sono, sono state anche scritte spesso in accordo con esperte, sono formalmente adeguate ma poi non si applicano come si deve. Non esiste la cultura negli operatori del diritto e altri operatori del sociale e non esistono dotazioni per far sì che un processo possa avere dei tempi ragionevoli ed efficaci».

La visita del gruppo di esperte del Consiglio d’Europa è prevista per il prossimo 11 marzo. A che cosa potrà servire?

«La visita è importantissima, perché è una specie di esame con pagella finale, che sarà quella che le esperte stileranno nell’autunno del 2019 e costituirà il rapporto GREVIO sulla situazione dell’Italia. Ci saranno valutazioni e raccomandazioni e non dimentichiamoci che la Convenzione di Istanbul non è l’unico strumento internazionale: per fortuna si inserisce in un quadro di convenzioni. Abbiamo visto e sentito recentemente anche molta preoccupazione per il ddl Pillon, quindi siamo sotto osservazione: questo ci rende molto più sicure rispetto al fatto che non è solo la nostra voce che evidenzia le carenze, ma che c’è uno sguardo internazionale a proposito».

Quando si monitora un fenomeno come quello della violenza di genere, parliamo di un fenomeno che ha una dimensione di “sommerso” molto forte. Come si raccolgono le informazioni e i dati su un mondo che molto spesso non emerge?

«Il sommerso è sicuramente più ampio di quello che si rivela. L’unico modo per procedere sono questionari, telefonate casuali su un campione di donne sparse per tutte le regioni d’Italia che riescono in questa situazione a dire cose che non riuscirebbero a dire mai, soprattutto perché non hanno spesso ricevuto risposte adeguate. Le donne spesso cercano aiuto, non è vero che non vogliono denunciare, ma quando cercano aiuto si scontrano con questa cultura, che c’è tra molti operatori dal sociale al giudiziale e che zittisce le donne e soprattutto non crede loro: le donne recepiscono il messaggio e rinunciano a denunciare».