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Combattere il razzismo senza arrendersi

Sono stati giorni di rallegramenti per buona parte degli italiani che hanno accolto, credo con il mio stesso entusiasmo, la condanna di Calderoli a diciotto mesi emessa dal Tribunale di Bergamo.

Una sentenza giunta dopo tante peripezie, che ha liberato energie positive perché il clima sociale e politico che stiamo vivendo è attraversato da sentimenti razzisti, anche nel nostro Paese.

Dunque la sentenza con soddisfazione di buna parte della stampa italiana, europea e mondiale, è stata riportata con enfasi. Non tutta, qualche giornale non ha perso l’occasione per gettare nuova benzina sul fuoco, con mio dolore.

All’epoca dei fatti, ossia delle parole offensive di Calderoli nei miei confronti, nel luglio 2013, si era appena formato il Governo Letta di cui facevo parte, e non erano in vista, da lì a poco, altre elezioni. Perciò la gratuità degli insulti di Calderoli fu per me motivo di grande sofferenza.

Parole inaccettabili, diffamanti, con l’aggravante dello «stampo razziale»: epiteti «medievali» diretti a tutte le persone provenienti da altri luoghi, ovviamente diversi dalle origini di chi le aveva pronunciate. L’indignazione fu condivisa da più parti, persino dal Segretario generale delle Nazioni unite.

L’Italia, all’epoca nel pieno sviluppo multiculturale, con quelle poche parole, riuscì a entrare nell’immaginario collettivo come un “terreno” ostico da praticare; e divenne ben presto un’arena di scontro, soppiantando il confronto, e dove le considerazioni comuni e politiche, anche quelle più becere erano tutte consentite e lecite.

Calderoli non si dimise. Certo, si scusò, inviandomi dei fiori che prontamente portai in una chiesa, e dove pregai per chiedere che la diffusione dell’amore fra le persone aumentasse nel mondo, a discapito dell’odio prevalente.

Mi chiusi in me stessa, sopportai il dolore profondo, ben sapendo che, in seguito, altri attacchi verbali, e dello stesso tenore di quello appena ricevuto, sarebbero giunti, e così fu. Altri leader leghisti ne fecero il loro sport preferito: «Torna a casa tua», fu il leit motiv dei giorni a seguire, con «battute» condite con riferimenti ovviamente dedicati alle «scimmie e alla giungla», e poi alle «liane», alle «banane», addirittura si sentirono versi gutturali, e poi si arrivò minacce reali, tanto che lo Stato italiano dovette concepire un programma di protezione dedicato, assegnandomi una scorta che tutt’oggi mi segue ovunque io vada. Calderoli, e insieme a lui tanti eletti nella Lega, mi augurarono allora persino lo stupro.

Grazie all’azione della Digos e a tante associazioni civili e religiose che seppero indignarsi, dimostrandomi la loro vicinanza, il caso fu segnalato ai pubblici ministeri, dando così avvio alle indagini e notificando agli interessati i dovuti avvisi di garanzia.

Tutti quegli insulti pesanti ricevuti allora, che ancora oggi arrivano, vennero definiti dagli stessi autori «battute simpatiche», forse per loro; in me causarono sofferenza, e tanta, così alla mia famiglia e credo a molti cittadini italiani.

Gli sviluppi della vicenda furono drammatici, come drammatica fu la negazione delle autorizzazioni a procedere da parte del Senato, che di fatto impedì ai giudici di poter processare Calderoli nel 2015.

Che ci fosse un’aggravante razziale nelle diffamazioni di Calderoli era chiaro a tutti allora. Ma i senatori ritennero di non riconoscerle, sacrificando sull’altare della negoziazione politica i valori costituzionali che prevedono il ripudio del razzismo, mettendo così a tacere anche la legge Mancino.

Mentre, in Europa, il Parlamento europeo trovandosi di fronte a una situazione analoga, ossia gli insulti rivoltimi da Borghezio, senza pensarci due volte, decise di procedere. Tolse l’immunità al collega e permise ai giudici di processarlo e di condannarlo. Da allora, infatti, Borghezio controlla attentamente le parole pubbliche che utilizza.

Nel frattempo molto, e direi in peggio, è cambiato malgrado la recente sentenza, per me una boccata d’ossigeno, il razzismo è diventato un elemento sistematico nel paese Italia.

Il razzismo, in un certo senso, è stato legittimato, tanto da portare alcuni cittadini italiani ad intraprendere ingiustificate azioni punitive nei confronti del diverso, ritenuto sempre un essere inferiore, spesso ritenuto addirittura un «nuovo schiavo».

Oggi domina una nuova visione, che possiamo sintetizzare con tre parole: «prima gli italiani». Una visione discriminatoria, improntata sulla violazione dei diritti fondamentali delle persone, spesso sostenuta da una falsa narrazione che vede nel diverso la causa di tutti i mali. Il razzismo si è diffuso filtrando attraverso le istituzioni: restrizioni per le mense scolastiche per figli di immigrati regolari; restrizione delle condizioni per il riconoscimento della cittadinanza italiana; richieste, che ritengo discriminatorie, di documenti aggiuntivi per la concessione delle allocazioni di ogni genere alle famiglie di immigrati regolarmente residenti; chiusura degli Sprar; abbattimento dei programmi di inclusione sociale dei richiedenti asilo; «chiusura dei porti», di certo alle sole navi umanitarie. Nel frattempo, navigano e attraccano in totale libertà navi mercantili piene di materie prime, e proprio dagli stessi luoghi dai quali proviene la maggior parte dei rifigiati. Per queste navi, cariche di ricchezze del Sud dirette al Nord, i porti rimangono rigorosamante aperti e lo sfruttamento capitalista dell’Africa può continuare indisturbato. 

Però, si è arrivati all’impossibilità di poter salvare vite umane e permettendo, di fatto, che molte persone possano affogare davanti ai nostri occhi mentre invocano con urla strazianti il nostro aiuto.

Una sorta di «Reato di solidarietà».

Questo è assurdo. Le persone che decidono di salvarne altre rischiano di essere sanzionate.

Altro assurdo è stata l’istituzione di tasse contro la bontà, a danno delle organizzazioni del Terzo Settore, a dimostrazione di ciò che si è deciso di intraprendere, un cammino verso la frammentazione sociale, che ritengo pericoloso. Questo è il quadro lugubre dentro al quale ci troviamo e che assistiamo speso inermi e basiti. Una realtà che vede imporre ogni giorno dichiarazioni di esponenti di governo predicare cattiveria, frasi che entrano nelle nostre case attraverso i televisori, i video, l’eco dei giornali. E le colpe non sono mai interne, ma dell’Europa, delle politiche europee, colpe spesso pretestuose.

L’Europa, certamente, ha molte responsabilità avendo lasciato all’Italia spesso sola e con un grande peso da portare in materia di migrazioni. Tuttavia, la stessa Europa ha adottato risoluzioni importanti, proposto delle soluzioni per sostenere l’Italia. Queste soluzioni sono spesso ignorate. L’attuale governo, in solidarietà con i paesi del gruppo di Visegrad, puntualmente sceglie diversamente, penalizzando il Paese che rappresenta per poi tornare in Italia e urlare contro gli immigrati, incoerentemente, narrazioni diverse dalla realtà.

La condanna di Calderoli, oggi, e in una tale situazione, è certamente una nota positiva per l’altra Italia, quella che non vuole incattivirsi, quella che non teme l’alterità, quella che lotta tutti i giorni per il trionfo dei valori positivi della vita. Tale condanna, per me, in particolare, rappresenta una speranza, un incoraggiamento, per guardare al futuro dell’Europa intera e del mio Paese, e per gli altri dieci procedimenti in corso che mi vedono coinvolta in altrettanti nei tribunali italiani.

Il razzismo è vietato in Italia, occorre combatterlo ovunque si presenti, senza mai arrendersi.