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Guido Vitale: «Philip Roth, la nostra finestra sul mondo»

«“Arbeit Macht Frei”, il “Lavoro rende liberi”: sono le parole incise dai nazisti all’ingresso di Auschwitz. Tuttavia, il lavoro ad Auschwitz è un’orrenda parodia del lavoro, senza scopo e senza senso; è fatica come punizione, che porta a una morte tormentosa», così Philip Roth incalzava Primo Levi in una bella intervista che apparve con il titolo «A Man Saved by His Skills» sulla New York Times Book Review il 12 ottobre I986; traduzione comparsa sul quotidiano La Stampa il 26 e il 27 novembre del 1986. Lo scrittore Philip Roth, ebreo, è stato tra i più noti e premiati autori americani ed è scomparso ieri, all’età di ottantacinque anni. Sosteneva che l’intera fatica letteraria di Primo Levi fosse tesa a restituire «al lavoro» il suo senso umano, «redimendo la parola Arbeit dall’irridente cinismo con il quale i datori di lavoro di Auschwitz l’avevano sfregiata».

Per ricordare lo scrittore, giornalista e interprete della società contemporanea, abbiamo chiesto al direttore di Pagine Ebraiche, Guido Vitale, di parlarci dell’importanza del testamento culturale e simbolico di Roth. «Il valore letterario di Roth – rileva Vitale – ha fatto sì che una generazione di lettori, soprattutto delle comunità ebraiche italiane, potesse giungere a una visione diversa, a una “presa” diretta sul mondo e sulle sue dinamiche; consapevolezze e visioni d’insieme, queste, allora non facilmente afferrabili; malgrado l’imponente letteratura ebraica disponibile».

Roth, prosegue Vitale «per chi era giovane nel post sessantotto, e per la realtà ebraica italiana di allora – antica storicamente, ma provinciale e marginale rispetto ai grandi flussi culturali che caratterizzarono poi l’ebraismo contemporaneo – rappresentava una “finestra” sul mondo, una nuova possibilità: quella di poter “incontrare” una realtà ebraica diversa: spiritosa, intelligente, positiva. Una novità che ci travolse. Ciò che oggi consideriamo “normale”, nel tempo a venire veicolato dalla letteratura o da film come quelli di Woody Allen, dall’arte o dal teatro, all’epoca non lo era. Roth fu un fenomeno letterario davvero dirompente. I libri di Philip Roth, ad esempio il Lamento di Portnoy (prima traduzione di Letizia Ciotti Miller, Milano, Bompiani, 1970, ndr), insieme alla grande letteratura contemporanea americana,  e ricordo appena Bernard Malamud, innescarono grandi riflessioni personali e colletive, anche all’interno delle nostre comunità italiane».

Osservatore attento (nato a Newark – New Jersey nel 1933) di tutto ciò che si svolgeva intorno a sé, Roth nel 1997 consegna ai lettori quello che fu considerato il suo capolavoro: Pastorale americana. Racconto nel quale affronta, in modo aperto e sincero, molti dei temi politico-sociali sensibili in quegli anni; un capolavoro premiato con il Pulitzer.

Roth, dunque, divenne nel tempo un modello da seguire, «attraverso le sue analisi – conclude Vitale –, si poteva essere ebrei ovunque, sia nella diaspora, sia negli Stati Uniti; grazie al suo impegno culturale e alla sua grande capacità espressiva, artistica e letteraria, sempre accompagnata dall’impegno civile e politico presente nella società, Roth contribuì, insieme a tanti intellettuali ebrei americani, lasciandola ai posteri, una testimonianza indelebile del ‘900. In una stagione, come quella di oggi, in cui l’immagine degli Stati Uniti è appannata, povera, arida, cupa, vagamente inquietante, possiamo essere certi che dentro alla testimonianza dell’ebraismo americano e nei testi di Roth sono tangibili tanti segni di speranza e spunti di riflessione per il futuro».

Sono oltre trenta i romanzi pubblicati nella lunga carriera da Roth, nei quali, l’autore ha sapientemente raccontato i pregi e i difetti dell’America, scandagliandone le inquietudini del tempo e le ipocrisie. Ad annunciarne la morte è stato il New Yorker, decesso poi confermato dal suo agente letterario Andrew Wylie.