yemen

Yemen, l’intolleranza come eredità

Secondo l’ultimo rapporto pubblicato da Unicef, l’agenzia delle Nazioni Unite che si dedica all’infanzia, nella guerra in corso in Yemen sono morti almeno 5.000 minori e altri 400.000 vivono in condizione di grave vulnerabilità dovuta prima di tutto alla malnutrizione. Inoltre, la più grande epidemia di colera da decenni a questa parte mette a rischio milioni di persone, private dell’accesso alla sanità di base, all’istruzione e in alcuni casi anche agli aiuti umanitari.

Il conflitto, cominciato nel marzo del 2015 con l’offensiva portata avanti dalla coalizione a guida saudita, affonda le sue radici nella ribellione degli Houthi, un gruppo politicamente vicino all’Iran e che non ha mai riconosciuto l’insediamento di ‘Abd Rabbih Mansur Hadi, avvenuto nel 2012, quando il presidente oggi riconosciuto dalla comunità internazionale vinse le prime elezioni yemenite presentandosi come unico candidato.

Questa guerra non sta causando danni soltanto nell’immediato, ma è destinata a portare con sé pesanti eredità, che incideranno sui 3 milioni di bambini nati durante questi tre anni, sulla loro formazione e anche sulla loro percezione della società, che nel frattempo è sempre più divisa.

A tutte le ricadute negative della guerra, negli ultimi mesi si è aggiunta anche la persecuzione contro le minoranze religiose, che può avere caratteristiche ideologiche, di vendetta o di strumento politico. La giornalista Laura Silvia Battaglia, che ha vissuto per anni in Yemen e che ha recentemente pubblicato un libro illustrato su quel territorio, La sposa yemenita, ha evidenziato sulla rivista di geopolitica Eastwest che «è partita la caccia ai baha’i».

La fede baha’i conta circa 7 milioni di fedeli sparsi nel mondo in circa 200 Paesi ed è una fede abbastanza recente, perché il suo fondatore, Bahá’u’lláh, è morto alla fine dell’Ottocento. Religione abramitica nata in seno all’Islam sciita, al cosiddetto babismo, in Iran, è monoteistica e i suoi fedeli sono stati, soprattutto alla nascita della Repubblica Islamica nel 1979, perseguitati e indicati come l’unica comunità religiosa che non ha diritto a nulla in Iran. «Questo è dovuto al fatto – ci racconta Laura Silvia Battaglia – che il Profeta baha’i, cioè Bahá’u’lláh, si definisce come un inviato da Dio, insomma alla stregua di Gesù, di Mohammad, e questo è uno degli elementi che l’ha resa una fede particolarmente invisa non all’Islam in sé, ma alla Repubblica iraniana». In effetti, la prima diaspora degli iraniani durante la rivoluzione fu quella dei baha’i, che si sono poi sviluppati nei Paesi europei, così come in Canada e negli Stati Uniti, senza problemi di persecuzione. Anche in Italia la comunità baha’i è piuttosto numerosa.

«I baha’i – sottolinea Laura Silvia Battaglia – sono presenti anche in Yemen e fino ad ora nessuno di fatto aveva mosso un dito nei loro confronti o si era “accorto” di loro».

E ora che cos’è cambiato?

«Tutto nasce dal fatto che i ribelli del Nord, gli Houthi, si ispirano con chiarezza assoluta ai libanesi di Hezbollah, con cui hanno dei legami profondi, politici, economici e militari, ma il loro modello resta sempre quello della teocrazia iraniana, con il desiderio di ritornare all’imamato presente nel Paese in passato. Sostanzialmente vige la convinzione che in qualche modo i baha’i abbiano dei legami con Israele, che siano di natura economica o che siano legati al sionismo. Questa diceria è stata applicata anche alla comunità baha’i del nord dello Yemen».

Uno degli episodi più rilevanti riguarda un caso delle ultime settimane, quello di Hammed bin Haydara. Come mai è stato condannato a morte?

«La sua è una storia che segue proprio questa diceria: Hammed bin Haydara è sostanzialmente accusato di aver acquistato dei terreni a Socotra per impiantare una comunità e fare attività di proselitismo della comunità baha’i. Inoltre è accusato di avere legami con Israele. Questo è il capo d’accusa principale, che peraltro poggia anche sulla complicata questione che riguarda la trascrizione del suo nome sulla carta d’identità, differente rispetto all’origine del padre, e quindi alla mancanza di documenti di cui non può dimostrare l’autenticità perché fisicamente non li ha. Tutto queto costituisce la pezza d’appoggio al principale capo accusatorio».

Adesso qual è la prospettiva per Hammed bin Haydara?

«Lui è già stato condannato a morte dalla corte degli Houthi, che rimane una corte non riconosciuta internazionalmente. Gli attivisti dell’associazione Mwatana Organization For Human Rights, che fanno parte della società civile yemenita e fanno un egregio lavoro, riuscendo anche a essere estremamente equidistanti da tutte le violazioni dei diritti umani perpetrate da tutte le parti in guerra sul terreno, si sono appellate alla comunità internazionale. Insieme a loro c’è Amnesty International che sta pressando affinché quantomeno si prenda del tempo, che potrebbe essere utile quantomeno a ricostruire il percorso anagrafico di Hammed bin Haydara e quantomeno per dimostrare che il capo d’accusa principale del quale viene accusato, cioè appunto questi terreni che avrebbe acquistato e non avrebbe dovuto farlo per proselitismo, venga cancellato, in modo tale di prolungare il tempo di attesa fino a mettere in piedi una pressione internazionale maggiore e possibilmente, come tutti speriamo, la sua liberazione».

A marzo saranno trascorsi tre anni dall’inizio dell’offensiva saudita in Yemen: il lascito di questa guerra ci sarà anche in termini di intolleranza verso le minoranze?

«Lo Yemen è cambiato moltissimo. C’è un aspetto che tengo sempre a sottolineare per spiegare questo conflitto al di là della generica definizione di sunniti contro sciiti. Questa definizione infatti vale a livello politico, sul piano delle due grandi potenze regionali, cioè Iran e Arabia Saudita, che si contendono la presenza dell’influenza a tutti i livelli nel Golfo, ma vale in misura assai minore per la popolazione, nella misura in cui questa popolazione non ha ricevuto anche un lavaggio del cervello, che negli ultimi anni è stato particolarmente forte sul tema della fede tra sunniti e sciiti. Lo Yemen è un Paese in cui sia il sunnismo sia lo sciismo storicamente, tradizionalmente, sono stati molto diversi da altre regioni. Per esempio, sunniti e sciiti pregano allo stesso modo, non si può distinguere un sunnita da uno sciita mentre prega, mentre è possibile farlo avendo davanti un sunnita che non sia shafi e uno sciita che non sia zaydita».

Quindi prima della guerra esisteva una convivenza pacifica?

«Certo. In Yemen c’erano, e ci sono ancora, famiglie miste sunniti-sciiti, che addirittura spezzavano il legame tribale. Tuttavia la nascita, negli anni intorno al Duemila, da una parte del partito Ansarullah, che è il partito con una forte matrice Hezbollah sul quale gli Houthi hanno fondato la loro rivendicazione nei confronti del governo, e dall’altra il partito Al-Islah, dei Fratelli Musulmani yemeniti, che invece ha sottolineato maggiormente contenuti di natura religiosa collegati al sunnismo, ha fatto sì che questi elementi politici entrassero nella vita dello Yemen. Questo ha preparato il terreno per questa guerra, dove oggi i vicini di casa combattono i vicini di casa, perché uno appartiene a una famiglia sunnita e un altro appartiene una famiglia sciita e combatte con gli Houthi. Insomma, questa situazione non è paragonabile a quella di cinque anni fa».

Questo ha cambiato il modo di vivere quotidiano delle comunità di fede?

«Questo si vede soprattutto con gli attentati terroristici nelle moschee di Sana’a. Qui non esistono moschee sunnite e sciite, ma luoghi in cui la frequentazione è soprattutto di persone del vicinato e quando accadde il primo grande attentato in una delle moschee del centro di Sana’a morirono delle persone all’interno che non erano soltanto sunniti o sciiti. Da quel momento ciascuno si guarda bene dall’entrare nella prima moschea che capitava a tiro per pregare, ma si sceglie accuratamente il luogo di culto in aree che sono meno attaccabili. Questo è francamente triste».