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Li chiamano «dublinati», sono le vittime del Regolamento di Dublino

Sanna ha vent’anni. Ha lasciato il Gambia e, viaggiando su un barcone, è riuscito ad arrivare sulle coste calabresi, dove è stato identificato tramite impronte digitali. Con un po’ di fortuna giunge in Germania: qui è accolto in una comunità per richiedenti asilo, comincia ad andare a scuola per imparare il tedesco, frequenta un laboratorio di teatro, sta per iniziare anche un apprendistato per diventare falegname. Ma… due giorni prima che il corso abbia inizio, avviene un controllo delle impronte digitali, in seguito al quale le autorità tedesche prelevano Sanna e lo imbarcano su un volo: destinazione Malpensa (Milano). In Italia non c’è nessuno che lo accolga; il suggerimento che la polizia dà a Sanna, e ad altri partiti insieme a lui, è «andate dove volete».

Sanna è un «profugo di ritorno», una delle tante vittime del «Regolamento di Dublino». Dubliners, li chiamano, gente di Dublino che nulla hanno a che fare con gli abitanti della capitale irlandese o con il famoso romanzo di James Joyce. In base a quell’accordo i cittadini extracomunitari, che fuggono da Paesi di origine perché in guerra o perseguitati per motivi di natura politica o religiosa, devono presentare domanda d’asilo nel primo Paese membro dell’Ue in cui arrivano e sono stati identificati. Dublinati, dunque, sono per esempio quei profughi che, arrivati in Italia per terra o per mare, dove sono stati identificati tramite fotosegnalazione e impronte digitali, riescono a raggiungere parenti o amici in Olanda, Svezia, Francia, Germania, ma poi – impigliati nella rete Eurodac, la banca dati a livello europeo delle impronte digitali dei richiedenti asilo usata dalla polizia per controllare se sono state presentate diverse domande – vengono riaccompagnati in Italia, in quanto primo paese in cui sono approdati e identificati.

Sanna, con i pochi soldi che ha a disposizione, raggiunge Grosseto dove c’è un suo conoscente, ma poi ritorna a Milano. Riesce a trascorrere qualche notte nell’hub attrezzato per la prima accoglienza ai profughi nella Stazione centrale. Poi, non essendoci posto in un’altra struttura di accoglienza, decide di ritornare in Germania, dove se ne perdono le tracce. La storia di Sanna è molto simile a quella di Lamin, 25 anni, anche lui del Gambia. Rispedito in Italia dalla Germania, Lamin è in attesa di essere inserito nel Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), grazie alla consulenza offerta dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia.

È la pastora Dorothee Mack, della chiesa metodista di Milano, a raccontarmi di aver conosciuto questi due ragazzi dopo essere stata contattata dalla chiesa metodista di Wiesloch – città che si trova a 15 km più a sud della più nota Heidelberg – dove sono attivi diversi gruppi di sostegno pro-rifugiati. «È drammatico – afferma la Mack – quello che vivono tante persone come Sanna e Lamin. Questi due giovani avevano avuto la possibilità di ricominciare una nuova vita. Si era aperto per loro lo spiraglio di un futuro migliore, e invece senza alcun preavviso tutto è stato buttato all’aria».

La «regola del primo ingresso» risale al 1990 quando i 12 Stati membro della Comunità europea firmarono la Convenzione di Dublino, con l’obiettivo di armonizzare le politiche in materia di asilo e accoglienza dei rifugiati. La Convenzione è stata poi sostituita dal Regolamento «Dublino II», sottoscritto dagli Stati dell’Unione europea nel 2003, fino ad una terza revisione – Dublino III – varata nel 2013.

Dal 1990 ad oggi lo scenario geopolitico è profondamente cambiato e quel Regolamento mostra tutti i suoi limiti. Lo conferma Giulia Gori, responsabile del «coordinamento accoglienza» del progetto sui corridoi umanitari, che rientra nel più ampio programma sulle migrazioni denominato «Mediterranean Hope», a cura della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei).

«Nel lontano 1990 l’Europa non era ancora massicciamente coinvolta nei flussi migratori e il Regolamento di Dublino, con la regola del primo ingresso, limitava il cosiddetto “asylum shopping”, cioè la possibilità che un richiedente presentasse domanda di asilo in ogni stato membro in cui transitava. Oggi l’Europa – a causa dei drammatici conflitti e delle violenze che stanno investendo l’area mediterranea e, più in generale, il continente africano – è coinvolta in flussi migratori sempre più crescenti, e il principio del “primo ingresso” penalizza soprattutto gli stati “frontiera” che si trovano più a sud dell’Europa (Grecia, Italia, Malta, Spagna)».

Il regolamento Dublino, prosegue Giulia Gori, poggiava sulla falsa idea che in Europa il sistema di accoglienza fosse uniforme. «Nonostante ci siano direttive europee che impongono livelli minimi di accoglienza per i richiedenti asilo, ogni stato nazionale ha procedure e criteri di accoglienza molto differenziati dagli altri. Presentare la richiesta di asilo in Italia non è la stessa cosa che presentarla in Svezia o in Germania: i paesi del Nord Europa tradizionalmente offrono un livello di accoglienza più alto».

Il Regolamento oltre a non essere più adeguato all’attuale situazione migratoria è anche ritenuto ingiusto, in quanto ad esempio continua a tenere in scarsa considerazione i progetti di vita dei richiedenti asilo e il loro diritto a raggiungere familiari e amici nei paesi europei dove risiedono. Per paura di essere rispediti in paesi dove non ci sono garanzie di dignità umana, i dublinati hanno cominciato a compiere azioni disperate: alcuni scavalcano recinti di filo spinato e dormono in strada per sfuggire alla polizia, altri per non lasciare le impronte digitali in paesi di transito hanno iniziato a bruciarsi la punta delle dita, evitando così di essere riconosciuti più in là durante il viaggio.

Sicuramente dalla prima versione del ‘90 a Dublino III ci sono stati piccoli miglioramenti, come ad esempio: una più aperta definizione del termine “familiare” nell’ambito del ricongiungimento; e l’introduzione della valenza sospensiva del ricorso, per la quale un richiedente asilo – che ha presentato ricorso contro l’ordine di trasferimento nel paese di primo ingresso – ha diritto di aspettare l’esito del ricorso nel paese nel quale si trova. «Nonostante questi miglioramenti – continua Giulia Gori – il Regolamento non sempre viene applicato nella sua interezza: vi sono delle clausole, come quella “umanitaria” e “discrezionale”, che permettono agli Stati di non applicare il principio del “primo accesso” a categorie particolarmente vulnerabili. Tempo fa, ad esempio, ci è stata segnalata dalla chiesa di Svezia una famiglia con un minore molto malato che era entrato in Italia e aveva continuato il suo viaggio in Svezia. Quest’ultimo paese, nonostante la vulnerabilità del minore, ha deciso di rimandare indietro la famiglia in Italia non applicando la “clausola umanitaria”».

Nel tentativo di gestire il crescente flusso di rifugiati che raggiunge l’Europa, lo scorso settembre è partito il programma di ricollocamento che nell’arco di due anni prevede il trasferimento di 160mila richiedenti asilo – soprattutto siriani, eritrei e iracheni – dall’Italia e dalla Grecia verso gli altri paesi europei che ospitano un numero inferiore di migranti. Ma gli accordi finora non sono stati rispettati. «Si tratta di un fallimento dell’Unione europea – commenta Gori – perché di fatto fino ad oggi i ricollocati dall’Italia sono stati solo 257».

Entro marzo i 28 stati dell’Unione europea definiranno le nuove norme sull’accoglienza ai rifugiati. Il clima è tutt’altro che favorevole. Eppure sull’accoglienza ai migranti e ai richiedenti asilo si gioca non solo l’avvenire di migliaia di persone come Sanna e Lamin che chiedono di poter vivere una vita degna, ma il futuro stesso dell’Europa che deve dimostrare concretamente di poter realizzare quei valori di dignità umana cui proclama di ispirarsi e che purtroppo vengono calpestati ogni giorno.

Foto via Pixabay