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Siria: l’emergenza cresce, le risposte diminuiscono

«Yarmouk è la fotografia esatta della disperazione della guerra siriana». È questa l’immagine più chiara che possiamo trarre dal buco nero rappresentato oggi dalla Siria, sconvolta da un conflitto che ha superato da tempo la boa dei quattro anni. A fornirla è il direttore della Cooperativa Armadilla, Marco Pasquini, che prima della guerra lavorava insieme ad un’associazione di donne siriane, Zahret el Madaen, in una zona poco a sud di Yarmouk, Hajar al Aswad. Oggi, dopo lo scoppio del conflitto, l’attività del centro, finanziato dall’Otto per Mille della Chiesa valdese, si è spostata a nord, nel quartiere di Midan, «un quarto d’ora a piedi da Yarmouk».

Perché si torna a parlare di Yarmouk e che valenza ha nello scacchiere siriano? Molti, al di fuori della Siria hanno conosciuto questo campo profughi attraverso una foto diffusa l’anno scorso dall’Unrwa, che mostra una interminabile fila di persone in coda per ricevere gli aiuti internazionali tra due ali di edifici distrutti. Ma Yarmouk è soprattutto un pezzo della città di Damasco e quando le agenzie di stampa internazionali hanno battuto nei giorni scorsi la notizia degli scontri con l’Isis in quella zona abbiamo chiesto a Marco Pasquini, che da poco è tornato dalla Siria, di aiutarci a comprendere gli eventi.

Innanzi tutto ricordaci cos’è Yarmouk e che cosa è diventato dopo questi anni di guerra.

«Yarmouk è un campo profughi palestinese che si trova nella zona sud di Damasco, dentro l’area della città. Da Yarmouk, per arrivare al centro di Damasco prima della guerra erano sufficienti venti minuti. Un quartiere enorme che dal settembre del 2011 è stato circondato dall’esercito governativo perché in quella zona e in quella limitrofa, Hajar Al Aswad, sono cominciati i primi scontri subito dopo l’inizio delle cosiddette primavere arabe. All’inizio della guerra, fino al settembre 2012, Yarmouk ospitava 180 mila palestinesi. Oggi ci sono circa 18 mila persone».

Yarmouk è un luogo simbolico anche perché è parte della città di Damasco. Come leggiamo le notizie di questi giorni?

«Come direttore di Armadilla non condivido quello che viene presentato in questi giorni sulla stampa. Non è vero che lo Stato Islamico ha conquistato il campo di Yarmouk.
Yarmouk è sempre stato un luogo di grande ribellione, specialmente negli ultimi tre anni. All’inizio si chiamavano ribelli, poi hanno aderito alle varie bande dell’opposizione siriana, più o meno coordinate, dentro cui Al Nusra, l’Al Qaeda siriana, è sempre stata molto presente. Oggi, come è successo in Libia, il brand vincente è quello dell’Isis, quindi hanno deciso di chiamarsi così. Ma non è successo qualcosa in questi giorni di particolarmente differente rispetto a quello che è accaduto negli ultimi tre anni: non c’è una presa militare come può essere successo a Idlib. Non ci sono nuovi scontri ma sono gli stessi che si perpetuano, solo che oggi parlando di Isis si va sui giornali. I migliaia di morti del periodo passato dove non c’era esposta la bandiera dell’Isis, non venivano considerati».

Trattandosi di una zona al centro del conflitto le notizie che giungono sono molto contraddittorie e difficilmente verificabili…

«Di nuovo non c’è nulla. La novità più grande di questi giorni [in Siria, ndr] è che tutte le varie componenti dell’opposizione, compresa Al Nusra, hanno deciso – notizia ufficiale – di raggrupparsi un’altra volta in una coalizione contro il governo centrale. Questo vuol dire che la scelta di tutto l’occidente di appoggiare solo esclusivamente l’opposizione siriana porta indirettamente a finanziare un’altra volta Al Nusra, e quindi Al Qaeda. […] Mi sembra che la storia si ripeta e chi sta pagando il prezzo più alto è la popolazione siriana. La gente all’interno della Siria è stremata. Quando parlo della Siria parlo solo di Damasco: non vado fuori dalla città perché non potrei andarci. È una popolazione che ha quasi perso la speranza per il futuro, e quindi non può esserci che una soluzione politica. Continuare ad appoggiare una pacificazione di questo paese senza una strategia logica e che guardi al futuro, vuole solo dire continuare ad appoggiare un sistema, da qualunque parte si guardi, che uccide migliaia di persone.

[Su Yarmouk] le nostre informazioni, e noi ne siamo testimoni visto che siamo usciti dalla Siria da qualche giorno e rientreremo a fine aprile, sono che le novità non sono novità. In questo momento, forse per quello che sta succedendo nel mondo musulmano tra sciiti e sunniti in Yemen, o forse la non chiusura del trattato sul nucleare in Iran [l’intervista è stata realizzata prima degli sviluppi del 2 aprile, ndr], c’è la necessità di tenere alta la tensione, ma questa è una mia visione. Quindi anche Yarmouk in questo momento va sulle prime pagine. Di tragico lì c’è solo la vita di questa gente disperata. E quando parliamo di Yarmouk non parliamo solo del campo, ma di una parte di Damasco che prima [della guerra] contava circa 350 mila persone tra Hajar al Aswad e il campo. Oggi sappiamo i dati dell’Unrwa sui 18 mila palestinesi a Yarmouk, ma non sappiamo quanti persone hanno dovuto abbandonare quella parte di città».

Tornando alle persone che subiscono la guerra, che fotografia dobbiamo considerare parlando della crisi umanitaria siriana?

«La situazione è tragica. Fino a qualche tempo fa negli occhi della gente leggevi la volontà di andare avanti con la speranza che qualcosa potesse cambiare. Oggi purtroppo è una situazione di remissione totale. Noi lavoriamo con un gruppo di donne e siamo di fronte all’aumento di richieste di servizi da parte delle famiglie. All’inizio davamo esclusivamente servizi di pediatria, fisioterapia e special education per bambini con difficoltà di apprendimento. Durante la guerra il numero delle famiglie è aumentato da 210 a 1380, con un particolare: prima la media della famiglia siriana era di 5 persone, oggi la media è di oltre 11 persone. Questo non perché sia aumentata la demografia ma perché nella tragedia siriana, dove dobbiamo considerare i circa 7 milioni di profughi interni, c’è stata un’aggregazione di famiglie e gruppi famigliari. Quindi il fabbisogno a cui potevamo dare risposta con un kit mensile per cinque persone, grazie anche ai fondi Otto per Mille della chiesa valdese, è cresciuto: oggi [un kit, ndr] deve soddisfare 11 persone di media. Non è più un sostegno al reddito, ma stiamo parlando di un’emergenza vera, che costa sempre di più e riesce a dare sempre meno risposte».

Copertina: Foto Stefano Stranges