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Salvare il Servizio Sanitario Pubblico

Il 23 dicembre 1978 il nostro Parlamento approvava a larghissima maggioranza la legge 833 che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale (Ssn) in attuazione dell’art. 32 della Costituzione. Un radicale cambio di rotta nella tutela della salute delle persone, un modello di sanità pubblica ispirato da princìpi di equità e universalismo, finanziato dalla fiscalità generale, che ha permesso di ottenere eccellenti risultati di salute e che tutto il mondo continua a invidiarci. Un capolavoro, se si considera che l’Italia, rispetto alla media dell’Unione europea, destina complessivamente alla sanità il 25% in meno delle risorse.

Sono passati più di quarant’anni e purtroppo dobbiamo amaramente constatare che è in atto un progressivo smantellamento del nostro Servizio Sanitario, provato senza precedenti dalla pandemia Covid-19, che ha ulteriormente aggravato il carico di lavoro delle strutture pubbliche, di fatto rendendole incapaci di far fronte a tutte le richieste di esami, di ricoveri e di attività di screening, arretrati e accumulati nel lungo triennio funestato dalla pandemia. Non bastano più la riconosciuta preparazione dei professionisti e la loro dedizione al lavoro. In occasione della pandemia abbiamo assistito a scene che riprendevano operatori sanitari stremati, privi di forze non soltanto fisiche, ma di fatto dimenticati dalla politica, salvo poi essere “celebrati” come eroi soltanto a parole, senza realistici interventi, almeno capaci di riconoscerne il valore del lavoro di cura.

Assistiamo a politiche dei governi centrali e regionali che, con la scusa della carenza di risorse, disattendono le norme sugli orari di lavoro, incoraggiano l’impiego dei “gettonisti”, questi ultimi in particolare nei Pronto soccorso, ove è richiesta altissima competenza specialistica e lavoro di team e, non ultimi, a interventi che orientano verso l’idea che il mercato, spesso indirizzato dagli interessi dell’industria della salute, associato a una buona copertura assicurativa individuale, possano risolvere i problemi della tutela della nostra salute.

A tutto ciò sicuramente sarà da aggiungere il cosiddetto “regionalismo differenziato” che, in un Paese attraversato da profonde disuguaglianze territoriali, determinerà un ulteriore svantaggio a carico delle Regioni già oggi in difficoltà, costringendo i cittadini a viaggi della speranza verso centri sanitari a centinaia di Km dalla loro residenza. Un paradosso nella strategia, che di fatto vanificherebbe le irripetibili occasioni di svolta e di sfide offerte dalle risorse del Pnrr, attraverso la transizione digitale e l’approccio One Health (che consiste nel considerare la salute globale del pianeta al pari di quella dei singoli individui affrontata in modo interdisciplinare) per riorganizzare l’assistenza territoriale, aumentare la spesa corrente vincolata al personale sanitario e una rigorosa governance dei 21 servizi sanitari regionali. Una deriva che può mettere a repentaglio un patrimonio di civiltà, che fino a oggi ha permesso di garantire uguali trattamenti alle persone socialmente più fragili e di vivere senza la paura di non avere i soldi per curare un figlio o un familiare, oltre che se stesso.

Se oggi dovessimo individuare quali sono i punti di forza e quali i punti di debolezza del nostro Ssn, senza timore di essere smentito, metterei tra i punti di forza gli operatori sanitari, anche ricordati il 12 marzo in occasione della giornata contro la violenza nei loro confronti, mentre tra i punti di debolezza, se non addirittura tra le minacce nei confronti della Sanità, la “politica”. Quest’ultima responsabile di aver portato il Ssn a un progressivo de-finanziamento negli ultimi vent’anni, allo sbando da un punto di vista della programmazione per il rinnovamento delle strutture ospedaliere (in Italia gran parte dei presidi ospedalieri sono costruiti nei primi decenni del ‘900), a una medicina territoriale da ri-progettare (anche alla luce delle risorse messe a disposizione dal Pnrr, valga per tutti l’importanza strategica dell’introduzione della telemedicina) e ad una programmazione incapace di prevedere il gap generazionale del numero di medici specialisti da formare nelle università, ad oggi neanche in grado di garantire il fisiologico turnover.

Auspicando di aver contribuito ad avviare una riflessione più collettiva su un possibile “disastro annunciato”, fermamente convinto che la storia della medicina pubblica italiana comunque ci induce a essere ottimisti, mi permetto di prendere in prestito un appello pronunciato in occasione della crisi economica e bancaria di circa una decina di anni or sono e che risultò efficace in Europa per salvare l’economia dal default: whatever it takes. Facciamo tutto il necessario, ad ogni costo, perché nessuno pensi di cavarsela da soli, la promozione della salute è un interesse collettivo.