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Il caporale scafista

Molto spesso, nei titoli dei giornali, il termine per qualificare la vicenda dello sfruttamento dei lavoratori stranieri è “caporalato”. Una figura, quella del “caporale” usata e abusata come se fosse il male da combattere per combattere l’ingiustizia nella filiera agricola. L’entità sulla quale catalizzare l’intervento repressivo dello Stato per risolvere il tema dello sfruttamento intensivo della forza lavoro. Non vi è dubbio che i caporali esistano, e che esista un loro ruolo reale nel mondo del lavoro delle campagne. L’archetipo del caporale e del caporalato sembra però essere divenuto la matrice unica per leggere il fenomeno dello sfruttamento del lavoro migrante, e rischia di farci distogliere lo sguardo dalle responsabilità di un interno sistema produttivo. Una filiera che fissa i prezzi dei prodotti agrumicoli dall’alto verso il basso e finisce per rendere strutturale il dato dello sfruttamento intensivo della manodopera bracciantile. Per fare un paragone, si dovrebbe guardare alla retorica del caporale esattamente a come nel tempo i media hanno costruito la figura dello “scafista” come responsabile delle migrazioni clandestine.

Il caporale è di fatto la figura che compensa lo spazio lasciato dal servizio di collocamento pubblico ed è a lui che il sistema dell’impresa affida il compito di selezionare e collocare la forza lavoro, e di compensare l’assenza di trasporti pubblici. I caporali il più delle volte non sono altro che semplici ex braccianti che hanno un furgone e che hanno una buona conoscenza del territorio. Commettono un reato? Senza dubbio ma per conto di chi? I caporali esistono perché migliaia di lavoratori non hanno relazioni con il territorio e sono ghettizzati senza possibilità d’integrazione. Il caporale esiste perché c’è una filiera agricola che si regge sull’abbattimento del salario dei braccianti e lui è una figura di garanzia in questo senso. Ma la domanda che faccio è; lo sfruttamento esiste anche senza i caporali?

Se leggiamo i titoli delle notizie sulle recenti indagini avvenute in Toscana, notiamo che si parla di caporalato ma se poi andiamo a leggere gli articoli con più attenzione, troveremo che la questione del caporalato c’entra ben poco, dato che sono gli imprenditori a essere stati denunciati. Quello che c’entra allora, e parecchio, è il livello di sfruttamento che veniva imposto a lavoratori senza possibilità di difendersi. A lavoratori senza il potere di reagire. In termini salariali, di condizioni di lavoro e di sicurezza.

L’ulteriore domanda che dovremmo farci allora è: perché questi lavoratori non possono difendersi da soli dallo sfruttamento? Che cosa li rende così vulnerabili? In questi anni mi è capitato più volte di leggere le buste paga dei lavoratori braccianti ingaggiati: essendo lavoratori mobili che si spostano tra Rosarno, Saluzzo, Foggia e in altre parti del paese, ho potuto notare che il problema principale per loro, oltre alla carenza di alloggi e ai ritardi nei permessi di soggiorno, è dato dal fatto che non esiste una corrispondenza tra le giornate dichiarate in busta paga e quelle effettivamente lavorate. Il lavoro grigio, più che il nero e il caporalato, è il parametro che accomuna la filiera agricola nel nostro paese e ci dice che lo sfruttamento esiste ovunque.

Lo sfruttamento intensivo dei lavoratori immigrati non è un dato solo italiano. È l’intera area del bacino mediterraneo che sfrutta il lavoro migrante. Dal livello estremo, che è quello dell’utilizzo schiavistico in Libia, allo sfruttamento dei lavoratori siriani in Libano o un Turchia fino ad arrivare alle nostre campagne, porti e logistica. Il tema dello sfruttamento sul lavoro dei lavoratori migranti sembra essere sempre spostato in secondo ordine quando si parla di frontiera, eppure tutti sappiamo che esiste un filo diretto tra le leggi sulla cittadinanza e quelle sul lavoro. Ed è su questo nesso che occorre riflettere per comprendere perché questi lavoratori siano oggi senza possibilità di esercitare la propria difesa.

 

Disegno di Francesco Piobbichi