Preparare la guerra o promuovere la pace?

I venti di guerra che percorrono l’Europa fanno innalzare il livello della tensione nelle relazioni internazionali: i nazionalismi mettono a rischio i valori che furono alla base dell’Unione

 

Non passa giorno senza assistere a una dichiarazione o un episodio che alzano il livello della tensione nelle relazioni tra gli Stati della comunità internazionale in spregio alle regole del diritto internazionale come enunciate, a Seconda Guerra mondiale ancora in corso, nella Carta delle Nazioni Unite, sottoscritta a San Francisco il 26 giugno 1945.

 

La scorsa settimana il presidente Donald Trump, lo stesso che ha cambiato il nome del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti in “Ministero della Guerra», ha annunciato, con un tweet su X, di avere ordinato «la ripresa dei test nucleari». Poco giorni prima, il presidente Vladimir Putin ha orgogliosamente annunciato che la Federazione russa dispone di un nuovo missile-vettore per armi nucleari, il Burevestnik, proclamato invincibile perché non intercettabile, e un drone sottomarino, denominato Poseidon, in grado di lanciare testate nucleari senza equipaggio. Il tutto compromettendo ulteriormente le (remote) possibilità che il Comprehensive Nuclear-Test-Ban Treaty (Ctbt), adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 settembre del 1996, entri infine in vigore.

 

In un contesto in cui regna il disordine mondiale, le superpotenze nucleari sembrano, dunque, intenzionate, da un lato, a farsi beffe dei fondamenti del multilateralismo e, dall’altro lato, a oltrepassare una dopo l’altra le red lines della dottrina della dissuasione volta a prevenire la minaccia di un conflitto nucleare.

In questo contesto, in cui gli Stati Uniti e la Federazione russa sono protagonisti di una escalation di fatti e di parole, anche la Cina, più silenziosamente, si fa avanti, disponendo già di oltre 600 testate nucleari e con l’ambizione di averne operative, al pari delle altre super potenze, almeno 2500 entro il 2030. Ce n’è a sufficienza per distruggere il mondo, come lo conosciamo oggi, non una ma due volte. 

 

In Europa, dove si continua a combatte nei territori orientali una guerra di trincea degna della peggior tradizione novecentesca, è tornato ad affacciarsi nell’opinione pubblica uno spettro rimosso da ottanta anni, quello della Guerra. I governi rispolverano un’antica massima in latino: si vis pacem, para bellum (se vuoi la pace, prepara la guerra), per giustificare stanziamenti miliardari allo scopo di rimpinguare gli arsenali nazionali a scapito di impeghi alternativi ben più profittevoli. Lo fanno senza cercare un’intesa volta almeno a configurare una difesa condivisa e, quindi, europea. Dobbiamo farci trovare pronti perché anche l’Italia potrebbe essere chiamata a fare la sua parte! Questo è l’imperativo che inizia a sentirsi sempre più spesso.

 

Siamo di fronte a politici ed elettori che non capiscono, o fanno finta di non capire, l’insegnamento della Storia, ossia che la Guerra è l’esito finale, tanto nefasto quanto preventivabile, del nazionalismo. Infatti, se l’interesse di un singolo popolo viene prima di tutto (America First) e va salvaguardato e imposto a ogni costo, la minaccia aggressiva e da ultimo l’uso della forza, anche armata, non sono più un tabù.

In Europa, per merito non nostro ma di chi ci ha preceduto settanta anni fa e aveva vissuto sulla sua pelle i suoi nefasti effetti, abbiamo uno straordinario antidoto al diffondersi del veleno del nazionalismo più ottuso nel corpo sociale. Si chiama Unione europea. All’art. 3 del suo trattato istitutivo si legge: «L’Unione europea si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli». La pace va, dunque, promossa perché non è scontata e si fonda su valori condivisi e con l’obiettivo di un benessere della collettività, non al singolare, bensì al plurale. In fondo, il multilateralismo, che abbiamo ricevuto in eredità e che dobbiamo a nostra volta trasmettere alla future generazioni, sta in quel plurale.

 

Gli interessi perseguiti dall’Unione europea sono, dunque, molti, come i suoi valori, e non ve ne è uno unico che, come avviene per l’interesse nazionale, sovrasta gli altri nella conduzione delle relazioni internazionali. Proprio perché frutto della sintesi della volontà di tutti e ventisette gli Stati membri, e di nessuno in particolare, da tale processo di mediazione sembra talvolta esprimersi una volontà apparentemente debole e soccombente nel contesto internazionale. In realtà, essa è semplicemente mite e, alla lunga, resiliente e, comunque, capace di costituire una posizione attrattiva e di riferimento per gli Stati terzi.

 

Per queste ragioni, bisogna ugualmente respingere la deriva di un’Unione europea bellicista indirizzata a perseguire un approccio da Confederazione, in grado di misurarsi, se mai le venissero attribuite dagli Stati membri le capacità e le dotazioni militari, con le super potenze mondiali. L’Unione europea deve, piuttosto, adoperarsi per ciò per cui è stata creata, ossia costruire la pace giorno dopo giorno, proponendosi come soggetto pacificatore, in grado di ridimensionare, anche concettualmente, il significato e la portata dei confini, così da contribuire a vincere l’eterna tentazione di un ritorno al nazionalismo. Gli strumenti giuridici a disposizione ci sono, occorre la volontà politica dei governi di metterli a frutto.

La Storia ricorda lo svolgimento in Europa della Guerra di religione dei Trent’anni, speriamo, in futuro, non anche la Pace durata (solo) ottant’anni.

 

 

Michele Vellano è  professore ordinario di Diritto dell’Unione europea – Università di Torino