Il punto interrogativo che è stato Pasolini

Il 2 novembre 1975 la tragica morte del poeta, scrittore, regista, giornalista

 

«“Cosa vuole costui, che ne sa lui dell’infinità che c’è dentro di me!”, infatti sai che l’altro è sempre infinitamente meno importante dell’io. Ma sono gli altri che fanno la storia». Così Pasolini in una lettera all’amica e poetessa Giovanna Bemporad del gennaio 1947. Parafrasando, potremmo dire: che ne sappiamo noi dell’infinità personale di Pier Paolo Pasolini; eppure siamo noi a fare la sua storia, ovviamente tradendo tutto quello che era lui.

 

La storia che abbiamo fatto di Pier Paolo Pasolini è collettiva eppure frammentata: a qualcuno interessano i suoi film, ad altri i suoi romanzi o le sue poesie, le sue lettere, i suoi esperimenti scolastici in Friuli, o la valorizzazione della lingua friulana, o le sue interpretazioni della società italiana degli anni ’60-’70, i suoi dipinti, o il suo impegno politico, o la lettura dell’urbanistica come simbolo politico, o la sua spiritualità, o il suo contributo alla musica popolare o, anche solo in una citazione, una traccia per un esame di maturità. I più lo hanno ignorato, chi si è soffermato, in Pasolini ha cercato sé stessa e i propri interessi.

 

Quello che è certo è che il suo assassinio a Ostia ha dato a questa storia collettiva e frammentata lo spunto definitivo per narrare Pasolini. Ma quella morte avvolta nel mistero, nonostante la sentenza del tribunale non convincente per tutti, può essere letta come l’ennesimo mistero italiano, una sorta di “Ustica personale” oppure come il simbolo della distanza tra Pasolini quale era e come lo vorremmo noi. C’è chi dice che Pasolini conosceva e a volte si esponeva all’efferatezza in un gioco con la morte, e chi rende nobile la sua morte con la teoria del complotto. Curiosamente Pasolini stesso ha affrontato la teoria del complotto poche ore prima di morire in una intervista a Radio Radicale in cui disse: «Il complotto ci fa delirare. Ci libera di tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare, qualcuno in cantina sta facendo piani per farci fuori. È facile, è semplice, è la resistenza». La resistenza ad accettare sé stessi e la propria esposizione. Come ha scritto Fabrizio De André: «La morte di Pasolini è una storia sbagliata e a distanza di anni non è tempo di dire mi dispiace o chissà come è andata perché è una storia che non sarebbe dovuta accadere».

 

Sarebbe però sbagliato leggere Pasolini sotto la categoria della vittima, non mi pare che egli si vedesse così nonostante gli ostracismi, i processi dovuti per lo più alla sua omosessualità esposta da lui stesso in forme che ancora oggi potrebbero essere disturbanti. Figlio del suo tempo, non ci ha presentato il suo compagno e non ci ha mai invitati al suo matrimonio, non è stato discreto e corretto, tanto da conquistare un pubblico progressista, ma ha vissuto e narrato di sessualità invisibili e rimosse, in una sorta di coming out a caro prezzo.

Per Pasolini, un io che si esprime e si consegna all’altro, accetta di diventare parte della storia che gli altri costruiranno, ognuno avrà colto un frammento, lo avrà esecrato o amato, ma avrà scritto la propria storia. In questo senso Pasolini non è stato un guru, un’icona o un maestro a tutto tondo, ma piuttosto un punto interrogativo. Personalmente mi ha sconcertata e disturbata. Uscendo dal cinema, non potevi semplicemente pensare: “che bel film”, eppure avevi la mente piena di immagini e punti interrogativi. Così Pasolini mi ha portata a considerare positivamente ogni espressione altrui che stride e crea fastidio al mio pensiero e alla mia vita. La storia non si costruisce ascoltando cose già udite e su cui si concorda. Nello sconcerto e disturbo, chiedendoti che cosa c’è in te che resiste, si sente estranea, scopri qualcosa di te e impari qualcosa a cui non avevi pensato. Anche in teologia dovrebbe essere così.

 

Le risposte vengono da sincere e personali domande.

Pasolini ha vissuto intensamente ogni contesto in cui si è trovato. A Casarsa, a Bologna, a Roma, a Sabaudia. In ogni luogo ha mischiato le carte e le persone creando incontri con mondi diversi. Nei film è evidente: attori non professionisti ma anche Totò. e Domenico Modugno, Pisa e il Nord Africa. Queste contaminazioni sarebbero più che mai necessarie; ci libererebbero dall’idea che conta solo essere al centro e che il resto è marginalità da dimenticare. Nessun luogo è troppo marginale per pensare e creare significati, incontri e costruire la storia. 

 

Pasolini è stato un intellettuale disorganico, al Partito comunista, alla borghesia, al cinema popolare dell’epoca, ai movimenti degli anni Settanta. In molte pagine ha sottolineato la sua estraneità, non voleva essere un alleato di qualcuno. Eppure ha avuto il grande e anacronistico pregio di offrire il suo pensiero, la sua creatività, le sue visioni del mondo, sé stesso non per avere il maggior numero di seguaci, neppure perché ci dividessimo in favorevoli o contrari, ma perché noi andassimo avanti a modo nostro costruendo la nostra storia.