Dio ci benedice trasformandoci
Un giorno una parola – commento a Genesi 32, 26
Non ti lascerò andare prima che tu mi abbia benedetto!
Genesi 32, 26
Allora gli furono presentati dei bambini perché imponesse loro le mani e pregasse
Matteo 19, 13
C’è qualcosa di strano in questa scena. Qualcuno chiede di essere lasciato andare. Qualcun altro si rifiuta. Ma chi ha davvero il potere? Lo sconosciuto che ha appena ferito Giacobbe all’anca dovrebbe potersi liberare facilmente. Eppure, chiede. E Giacobbe, ferito, esausto, trova ancora la forza di dire: non ti lascio andare.
Giacobbe ha passato tutta la vita ad afferrare. Il suo nome stesso lo ricorda: è nato tenendo il calcagno del fratello. Ha afferrato la primogenitura, la benedizione, le ricchezze. È sempre stato l’omo dalle mille risorse. E anche adesso, nella notte più buia della sua vita, continua ad afferrare.
“Non ti lascio andare se non mi avrai benedetto”. È una richiesta? Una pretesa? Forse entrambe. Giacobbe vuole una benedizione, ma probabilmente sta ancora immaginandola nei suoi termini: la salvezza da Esaù, la conferma delle sue strategie, qualcosa che gli permetta di continuare ad essere chi è sempre stato.
Giacobbe riceverà la sua benedizione, ma non è quella che si aspettava. Riceve un nuovo nome e una ferita permanente. Diventa Israele, ma zoppica. È benedetto, ma porta per sempre il segno di quella notte.
Mi chiedo se la benedizione non stia anche in questo paradosso. Giacobbe chiede con forza, “non ti lascio andare”, ma ciò che riceve lo trasforma in qualcuno capace di lasciarsi andare. L’uomo che aveva sempre controllato tutto deve ora attraversare il guado e incontrare Esaù portando visibilmente il segno della sua vulnerabilità.
E forse è proprio questa la liberazione che aveva chiesto a Dio: «Liberami dalle mani di mio fratello perché ho paura». Non viene liberato evitando Esaù. Viene liberato diventando qualcuno che può finalmente incontrare Esaù senza maschere, senza strategie, portando su di sé il segno di una lotta che lo ha trasformato.
Forse Dio ci benedice proprio trasformandoci. Forse le ferite che portiamo non sono segni di sconfitta ma tracce di quella notte in cui abbiamo lottato e siamo stati toccati. La nostra zoppia diventa non ciò che ci limita, ma ciò che ci rende finalmente capaci di attraversare il guado, di riconciliarci, di lasciarci andare.
Giacobbe voleva una benedizione per poter continuare ad essere Giacobbe con più sicurezza. Ha ricevuto invece la grazia di diventare Israele, con tutta la fragilità e la bellezza che questo comporta. E forse questo è ciò che accade ogni volta che diciamo a Dio “non ti lascio andare”: non otteniamo ciò che chiediamo, ma ciò di cui abbiamo bisogno.
L’alba è arrivata. La lotta è finita. E Giacobbe – ora Israele – attraversa il guado zoppicando, ma benedetto. Amen.
Immagine: Giacobbe combatte con Dio, incisione su legno del 1860 di Julius Schnorr von Carolsfeld