Verità e responsabilità
Il 171° Anno accademico della Facoltà valdese di Teologia si è aperto tra sabato 4 e domenica 5 ottobre: i temi trattati dalla prolusione hanno trovato un intreccio carico di significati con la predicazione nel corso del culto
Nelle due giornate del 4 e 5 ottobre, tra l’Aula Magna della Facoltà valdese di Teologia (Fvt) di Roma e la chiesa valdese di piazza Cavour, studenti e studentesse candidati e candidate al pastorato, docenti, autorevoli esponenti delle chiese evangeliche della Capitale e la moderatora della Tavola valdese, diacona Alessandra Trotta, si sono riuniti e hanno visto dare corpo alla promessa del Salmo 85, 10-11: «La bontà e la verità si sono incontrate, la giustizia e la pace si sono baciate. La verità germoglia dalla terra e la giustizia guarda dal cielo».
Dentro questo orizzonte si collocano il sermone e la prolusione per l’apertura del 171° a.a. della Fvt. Ne diamo notizia anticipando il sermone alla prolusione per mostrare che sono stati due momenti dello stesso anelito di ricerca: la Scrittura come parola che genera vita e decentra l’umano.
«Dove siete? O meglio: dove siete andati mentre ascoltavate la lettura del testo?». Con queste domande la prof.ssa Francesca Debora Nuzzolese apre il sermone su Giovanni 11, 1-44 dal pulpito della chiesa valdese di piazza Cavour domenica 5 ottobre. Due domande che colloca chi ascolta a Betania per poi metterlo in movimento tra centro e periferia del racconto, perché la Parola non si ascolta da fermi.
Il centro è un dialogo tra Marta e Gesù. Qui Giovanni affida a Gesù la sua dichiarazione più audace: «Io sono la resurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore, vivrà; e chiunque vive e crede in me non morirà in eterno. Credi tu questo?» (Gv 11, 25-26). Non spiegazioni sulla morte, non parole di circostanza: un’offerta di relazione presente che trasfigura il lutto. La fede, ferita ma autentica, confessa con Marta: «Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio» (cf. Gv 11, 27) e si fa lamento e lacrime con Maria: «Signore, se tu fossi stato qui…» (Gv 11, 21. 32). Tra confessione e pianto il Vangelo custodisce la dignità delle nostre domande. Al centro vibra un versetto breve come un singhiozzo: «Gesù pianse» (Gv 11, 35). È teologia dell’incarnazione in forma di empatia: Dio abita il limite e lo redime.
Dalla soglia del centro, la predicazione raggiunge la periferia della rivelazione: in Giovanni la verità è relazione. A Marta Gesù offre parola e dottrina; con Maria condivide il silenzio e le lacrime; alla folla consegna un segno che interroga. Persino Lazzaro, muto, diventa parola vivente. Poi la voce si fa comando: «Togliete la pietra» (Gv 11, 39). «Lazzaro, vieni fuori!» (Gv 11, 43). «Scioglietelo e lasciatelo andare» (Gv 11, 44). Non sono ordini archiviati: sono verbi per la Chiesa di oggi. “Vieni fuori” è la chiamata quotidiana a uscire dai sepolcri delle paure e delle certezze che imprigionano; “Scioglietelo” affida alla comunità il compito di liberare: nessuno si salva da solo. Da qui scaturisce un’etica della resurrezione: nonviolenza, compassione, cura del creato, dignità per i vulnerabili. Dove qualcuno accoglie, accompagna, insegna la pace, la vita risorta è già all’opera.
Inaspettatamente, la prolusione e il sermone si sono trovati sulla stessa lunghezza d’onda: il pulpito ha dato corpo a ciò che in Aula Magna era emerso come metodo di lettura.
Il 4 ottobre, nell’Aula Magna della Facoltà, il prof. Marco Fornerone ha proposto una lettura di Gb 40, 15-24: «Considera l’ippopotamo (behemòt)». Non un capriccio zoologico, ma un metodo di esegesi per una teologia degli animali. La domanda di fondo: come la Bibbia ebraica rappresenta gli animali non umani? E che cosa rivela questo sguardo oggi, nell’epoca della crisi ecologica?
Il metodo intreccia esegesi e storia della cultura (Tillich) e tiene insieme spiegazione e comprensione (Ricoeur), disinnescando i bias che proiettano antropocentrismi e opposizioni scontate (Oriente/Occidente, monoteismo/idolatria). Nel secondo discorso di YHWH a Giobbe, behemòt appare come la creatura che decentra: «Ecco… il behemòt che ho fatto al pari di te; mangia l’erba come il bue… La sua forza è nei lombi… Le sue ossa come tubi di bronzo» (Gb 40, 15-18). Vive tra canneti e paludi, resta imperturbabile «anche se il fiume straripa» (40, 23); l’uomo non lo domina (40, 24).
È un ippopotamo? Le evidenze convergono: archeozoologia (presenza nel Levante fino all’Età del Ferro), avorio diffuso, iconografie di caccia reale in Egitto. Ma il testo lo carica di funzione simbolica: reale e “più-che-reale”. Messaggio: il mondo non è un caos senza custodia; è buono e ordinato, abitato da molti – anche da chi non “serve” all’uomo. Fuori dal controllo umano, sotto il controllo di Dio: così behemòt risponde a Giobbe, e a noi.
Da qui Fornerone allarga il quadro verso una teologia degli animali: non solo parlare degli animali (genitivo oggettivo), ma lasciarli parlare (genitivo soggettivo). La Scrittura li pensa nella polispecie della creazione: l’alleanza con «ogni essere vivente» (Gen 9, 17), il riposo sabbatico esteso agli animali (Es 20, 10; Dt 5), la cura del bestiame (Prov 12, 10). Talora gli animali appaiono soggetti imputabili (Gen 9, 5; Es 21, 28) e persino interlocutori religiosi: «farò per loro un patto con le bestie dei campi» (Os 2, 18); «i leoncelli chiedono a Dio il loro cibo» (Sal 104, 21). E Qoèlet frena ogni trionfalismo antropocentrico: «hanno tutti un medesimo soffio… l’uomo non ha superiorità sulla bestia» (Ecc 3, 19).
Sermone e prolusione, così accostati, convergono: la prima pagina ci educa a essere chiesa che esce (Gv 11: «Vieni fuori… Scioglietelo»); la seconda ci educa a essere decentrati (Gb 40: «Considera l’ippopotamo»). Così, sulla stessa lunghezza d’onda, sermone e prolusione convergono: la «verità che germoglia» diventa formazione e cura; la «giustizia che guarda» diventa la responsabilità pubblica delle nostre comunità (Sal 85, 10-11).