Di segni e di visioni. Il grande sacco

L’appuntamento di ottobre con la rubrica di Riforma fra arte e spiritualità

 

1959, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna: sulle pareti bianche compare un grande sacco di iuta, rattoppato in alcuni punti, sdrucito in altri. Appeso alla tela come fosse una bandiera che ha superato, non indenne, una battaglia.

Il mondo culturale di quegli anni, già infettati nei loro valori dalle conseguenze del boom economico, esplode: “Ma come!”, “È uno scandalo!”, “I soldi pubblici dovrebbero essere usati meglio!”, “L’avete spruzzato con il Ddt, prima di esporlo?”. Palma Bucarelli, la direttrice della Galleria chiamata a rispondere addirittura in Parlamento, non si scompone – non lo faceva mai: l’opera è un prestito, e i musei devono prendersi la responsabilità di parlare con il presente.

 

Alberto Burri, l’autore della “pietra dello scandalo”, tace.

Oggi, dai muri gloriosi della Galleria, il Grande Sacco continua a parlare.

E dice.

Dice di guerra, e dunque di devastazione: Burri era stato ufficiale in Africa – Tunisia, 1943. E dall’Africa si ritrovò in un campo di prigionia in Texas, dove gli Alleati lo trasferirono insieme con altri ufficiali, dopo la cattura.

Dice, anche, di memoria: nel campo Burri, che era medico, forse provò a curare, a rattoppare, a ricucire.

 

E certo nei suoi occhi erano rimaste le immagini della morte vista in Africa – magari, anche quelle di chi era riuscito, o riuscita, a sopravvivere all’abbondante uso di gas mortali fatto dal nostro Paese ai tempi della “conquista coloniale”.

Dice. E non permette di dimenticare, come invece si voleva – perché l’Italia allora doveva pensare principalmente alle sue magnifiche sorti e progressive.

 

Come il roveto che arde senza mai consumarsi davanti agli occhi di Mosè dice l’eternità di Dio, il Grande Sacco ci avverte che se non guardiamo in faccia i nostri errori, li rifaremo; e continua a ripetere la banale, stolida, micidiale storia dell’uomo che è lupo feroce agli altri uomini.

E a suggerirci, se davvero rifiutiamo quella malefica storia, di dire qualcosa anche noi: ora basta, davvero.