Il Credo, ieri e oggi
Cos’è un Credo per i cristiani oggi?
La lettura, su questo sito di un testo che intende presentarsi come un Credo, mi ha indotto a ripensare alle celebrazioni del Concilio di Nicea svoltesi quest’anno, nel XVII centenario dell’evento: come pastore valdese e professore di teologia, sono stato invitato a parlarne in contesti assai diversi, rimanendo, devo dire, piuttosto stupito dall’interesse per un tema che, almeno a prima vista, non sembra in cima alle priorità del dibattito pubblico.
Nella comunità evangelica che frequento, nel culto domenicale si recita regolarmente il Credo detto Apostolico, che è diverso dal Niceno (- Costantinopolitano: quello in uso nella messa cattolica), ma ne condivide, oltre naturalmente ai contenuti centrali, il linguaggio estremamente arcaico, com’è ovvio trattandosi di testi antichi. Stranamente, la terminologia dei Credo dei primi secoli mi crea più imbarazzo ora, che sono anziano, rispetto ai miei anni giovanili. Allora pensavo che, poiché le antiche parole incarnano comunque una storia di fede condivisa, andassero mantenute nella liturgia e che il problema fosse, semmai, di spiegarle. Un po’ presuntuosamente, ho anche scritto un libro a questo scopo. Oggi, invece, penso che sia fuori luogo presupporre che l’intera comunità debba o possa leggere il mio o altri libri sul tema: sarebbe meglio, io credo, confessare la fede con parole più semplici per noi, più “nostre”.
Ma che cos’è un “Credo”? È un tentativo di esprimere in sintesi (l’espressione “simbolo”, a volte usata come sinonimo nelle chiese, significa qualcosa come “mettere insieme”) l’essenza della fede cristiana. Secondo il Nuovo Testamento, tale essenza non è una serie di concetti, ma una storia, quella di Gesù di Nazareth, a partire dalla quale la chiesa comprende la storia di Dio con l’umanità. Un Credo, dunque, cerca di dire, in poche parole, chi è Cristo per noi oggi e, a partire da questo, parla del Dio di Israele come di un Padre (o anche Madre: da questo punto di vista vi è analogia tra i due appellativi), che rivive e rinnova la storia di Gesù mediante la sua presenza, chiamata «l’opera dello Spirito Santo». Per tale ragione, la struttura di queste espressioni della fede cristiana è di solito trinitaria.
Soprattutto con la Riforma protestante, diventa essenziale esprimere il significato di Gesù di fronte a sfide specifiche, diverse da quelle di Nicea o Costantinopoli. Accade così, ad esempio, che un aspetto prima riassunto in una sola espressione («per la nostra salvezza» o addirittura, nell’Apostolico, come del resto nel Nuovo Testamento «per noi»,) prenda molto spazio in quelle che vengono chiamate le «confessioni di fede» della Riforma, diventando «l’articolo (cioè: il capitolo) sulla giustificazione». E la Riforma produce decine di confessioni di fede, su base locale: non perché la fede sia diversa in Francia e in Scozia, ma perché il contesto rende utili parole diverse. Due elementi sono costanti: a) si tratta sempre di parlare di Dio e del mondo a partire dalla storia di Gesù e del suo significato; b) La confessione di fede, o il Credo, sono prodotti collettivi, ecclesiali.
Può anche accadere, però, che un gruppo di lavoro, un corso di catechismo, una singola persona, avvertano l’esigenza di esprimere la fede con parole proprie. Senza un consenso ecclesiale, si tratta ovviamente di un semplice contributo al dibattito; non è certo, secondo molti, che sia saggio usare questi testi nel culto, perché la comunità non ha potuto esprimere preventivamente il proprio accordo. E’ anche vero, però, che la predicazione stessa invita all’amen comunitario (anche se di solito chi predica se lo dice da sola/o, per segnalare che ha finito, come il leggendario ich habe fertig di Trapattoni in Germania): nei modi dovuti e con il debito senso di responsabilità, il culto evangelico prevede spazi di creatività.
Insomma, nell’anno di Nicea, credo di avere imparato questo: la creatività evangelica nell’esprimere la fede non è mai troppa. Gli stessi grandi simboli dell’antichità non dicono tutto e non sempre si esprimono nel modo che a noi apparirebbe più chiaro. Si distanziano anche dal linguaggio biblico. Quindi, ne deduco, anche noi possiamo, e forse dobbiamo, parlare della storia di Gesù con la libertà che essa stessa genera.
Il testo menzionato in apertura, infine, mi suggerisce una precisazione: nella chiesa cristiana, si tratta sempre e comunque della storia di Gesù e della nostra, in quanto intrecciata alla sua. Se è un’altra storia, senza Gesù, allora si tratta anche di un’altra fede.