A Venezia in giuria
Il racconto di due giovani coinvolti dall’associazione cinema protestante “Roberto Sbaffi” nel recente Festival del Cinema
A discutere amichevolmente di cinema proseguono anche davanti all’intervistatore, segnale di una passione che fa pensare ad una scelta azzeccata da parte di chi li ha coinvolti.
La giuria che al recente Festival del cinema di Venezia ha avuto il compito di assegnare il premio interreligioso ha visto nella sua componente italiana la presenza di Leonardo Ribet Griot, 23 anni compiuti, e festeggiati, proprio durante i giorni della rassegna sulla laguna.
Nominato dall’associazione protestante per il cinema “Roberto Sbaffi” ha portato con sé un amico con cui condividere impressioni ed emozioni sui film da visionare, il coetaneo Giacomo Dalmas, che è diventato in qualche maniera un elemento aggiunto della giuria, presente alle riunioni e alle discussioni che seguivano la visione dei film da valutare. Un doppio sguardo fresco sul mondo del cinema, in compagnia di esperti del settore provenienti dagli Stati Uniti alla Germania alla Lettonia.
«Avevo già partecipato alla giuria del “Tertio Millenio Film Fest” di Roma – racconta Ribet Griot – e quando si è presentata questa nuova grande opportunità non ci ho pensato due volte. Quando ho saputo poi che c’era la possibilità di coinvolgere qualcuno in più, non ho esitato a chiedere a Giacomo di essere presente, credo per sopperire in qualche maniera alla mia inesperienza rispetto agli altri giurati, con la possibilità di confrontarmi con una persona a me vicina».
Gestire le discussioni in lingua inglese, aprirsi agli altri, mediare: essere un giurato non è esercizio banale. «Devo dire che i confronti più animati però li ho avuti proprio con Giacomo – aggiunge ridendo Ribet Griot – mentre con il resto della giuria abbiamo spesso concordato sui film da tenere in maggiore considerazione».
Alla fine di dieci giorni intensi la giuria si presenta «sfatta e soddisfatta», così l’ha definita il pastore e presidente della “Sbaffi” Peter Ciaccio. Ribet Griot concorda: «sì, decisamente. Da quando ho visto il primo film sono stato assalito da una sorta di febbre che mi ha spinto a vedere tutte le programmazioni possibili, dal mattino alla notte: una maratona che si percorre molto volentieri. Ci tenevo a partecipare anche alle conferenze stampa, per provare attraverso le parole dei protagonisti a comprendere di più sul senso di quanto appena visionato. Abbiamo inoltre visto altri film oltre a quelli selezionati per la nostra giuria».
Insomma, una full immersion totale, gioia dei cinefili. «Una bellissima esperienza – conferma Dalmas –; per me poi che non avevo ruoli ufficiali, è stato possibile muovermi con più libertà e scegliere i film da guardare. Ci è stato chiesto di farci coinvolgere anche in futuro, in altre rassegne. Credo proprio che accetteremo con gioia».
Il mondo forse mai come quest’anno è entrato con forza nelle sale, nel palazzo del cinema. «Nonostante sembri di stare un po’ in una bolla – confermano i due – la questione palestinese è sicuramente risuonata ovunque, dalle manifestazioni alle parole di attori e registi durante tutta la rassegna e ancor più durante la serata finale».
Rimane l’incanto di un festival del cinema ospitato in un luogo magico, la città d’arte per eccellenza. Entrambi ricordano il fascino «di svegliarsi presto fra le nebbie della laguna, muoversi a piedi fra le calli, salire su un vaporetto per raggiungere navigando la meta. Una suggestione continua».
Discutono con garbo, dissentono su molto, i due. Entrambi però sono sorpresi per la scelta di premiare con il Leone d’Oro il film Father mother sister brother di Jim Jarmusch e soprattutto concordano, questa volta sì, sul film più brutto. Per entrambi è lo stesso, senza dubbio. Ma si dice il peccato e non il peccatore.