Il risultato eccezionale di una storia accidentata

Tutt’altro che scontato, il processo di avvicinamento reciproco fra le chiese metodiste e valdesi si colloca anche nel mutato quadro ecumenico

 

Da ieri e fino a venerdì vi proponiamo una serie di articoli dedicati ai 50 anni dal Patto di integrazione fra le chiese valdese e metodiste. Gli articoli fanno parte di uno speciale contenuto nel nostro settimanale Riforma di questa settimana.

 

Il processo di integrazione tra la Chiesa evangelica metodista d’Italia e la Chiesa evangelica valdese non nacque sotto una buona stella. Soprattutto da parte valdese c’erano imbarazzi e reticenze alimentati da un forte senso della propria identità storica. La compiaciuta retorica della qualifica di mater reformationis dava a buona parte del gruppo dirigente della Chiesa la convinzione della propria autosufficienza; la solidità dei propri ordinamenti garantiva un efficace governo della Chiesa e delle sue opere; una solida rete di relazioni internazionali, oltre a sostenere bilanci e progetti, aveva collocato la piccola comunità valdese nella grande famiglia riformata.

 

La replica alla presunzione di autosufficienza a lungo prevalente nella Chiesa valdese arrivava sulle colonne de La Luce. In un articolo non firmato ma che per arguzia e argomentazione storica è facile attribuire a Giorgio Spini, si leggeva: «Madre della Riforma voi. Noi metodisti, invece, non siamo neanche figli della Riforma. Tutt’al più possiamo considerarci nipoti, cioè figli di una figlia alquanto infedele: insomma parenti alla lunga, sembrerebbe» (1964, n. 57).

D’altra parte non era un mistero che i metodisti, ormai privi del sostegno strutturale delle grandi missioni inglese e americana, vessavano in condizioni economiche difficili: nei verbali delle Conferenze annuali il tema della crisi era ricorrente e talora diventava difficile corrispondere l’assegno ai pastori e ai dipendenti dell’Opera. L’argomento dei “debiti” alimentava le perplessità valdesi che vedevano il rischio di un passo imprudente e persino rischioso. Ma il tema più divisivo era quello del nome, che è come dire dell’identità che la nuova chiesa avrebbe dovuto prendere.

 

Di unificazione o federazione – il termine integrazione sarà successivo – si parlava sin dai primi anni ’40, ma il dialogo tra valdesi e metodisti si fece più concreto e stringente soltanto nel Dopoguerra, quando il presidente metodista Emanuele Sbaffi scrisse al moderatore Virgilio Sommani azzardando la creazione di una “Chiesa cristiana evangelica”. L’ipotesi era che il superamento delle barriere nazionali avrebbe facilitato «grandemente la nostra penetrazione in seno al nostro popolo» (18 aprile del 1947). Nel suo impeto unitario, Sbaffi si era spinto molto in avanti e, soprattutto, aveva toccato il tabù del nome della nuova chiesa che avrebbe archiviato il riferimento alla tradizione valdese. Tanto bastò a congelare un dialogo che poté riprendere soltanto nel 1957 con una formula che potremmo definire dei “piccoli passi”: tra il 1957 e il 1958, a esempio, il Sinodo valdese e quello metodista – questa la denominazione al tempo – approvarono il reciproco riconoscimento dei ministri di culto”.

 

Il processo di avvicinamento, tuttavia, procedeva con grande lentezza e qualche incidente di percorso. Le componenti più identitarie della chiesa valdese non vedevano alcun vantaggio nella “unificazione” con i metodisti e, assumendo i dati della Conferenza del 1963, facevano notare la disparità quantitativa tra le due chiese: per un membro di chiesa attivo in quella metodista se ne contavano 3,8 in quella valdese; il rapporto era analogo per il numero dei pastori; per ogni comunità metodista erano quasi il doppio quelle valdesi. Soprattutto, su piano finanziario i valdesi contribuivano alla loro chiesa in misura 3,8 volte superiore ai metodisti.

 

Tra le tante ragioni che l’identitarismo valdese opponeva all’unificazione delle due chiese, insomma, vi era quella assai poco nobile e dicibile che questa avrebbe comportato un aggravio economico di una certa consistenza. Il tempo passava e, con una formula consacrata da un titolo de La Luce, «i due fidanzati erano restii alle nozze». Anzi, a dirla tutta, alcuni dei loro parenti più stretti, da una parte e dall’altra, scommettevano su una tempestiva e definitiva separazione.

 

Ferma l’aria dell’Aula sinodale e della Conferenza metodista, però, la società italiana e il movimento ecumenico erano invece scossi da una ventata di cambiamento e di accelerazione dei processi sociali. Gli effetti del Concilio vaticano II, le campagne antirazziste del Consiglio ecumenico delle Chiese, l’eco delle proteste contro la guerra in Vietnam e, per venire all’Italia, il problema dell’immigrazione interna, le lotte operaie, il divario tra Nord e Sud del Paese costituivano altrettante sfide che, direttamente o indirettamente, riguardavano anche le chiese evangeliche. Va collocata in questo quadro la costituzione, nel 1967, della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, un obiettivo di assoluta rilevanza che avvicinava come mai era accaduto diverse componenti del protestantesimo storico italiano. Altre chiese, di matrice pentecostale ed evangelical, scelsero di non aderire a quel progetto, marcando una distanza teologica e “politica” che oggi si è ridotta solo in parte e per alcune di esse soltanto: ci riferiamo all’Unione delle chiese avventiste e alla Federazione delle Chiese pentecostali che, pur da “osservatrici”, collaborano attivamente con la Fcei.

 

Nel 1969 seguì la nascita della Federazione giovanile evangelica in Italia (Fgei) che, tra i suoi meriti non sempre adeguatamente riconosciuti, ebbe quello di formare una nuova generazione di quadri del protestantesimo italiano: giovani che viaggiavano, partecipavano agli incontri ecumenici internazionali, si impegnavano anche sul piano politico e che furono capaci di riportare queste esperienze anche nell’ambito del dibattito interno al protestantesimo italiano. Il mondo, l’ecumene cristiana e la sfida della predicazione evangelica in Italia costringevano le chiese a uno sguardo meno autocentrato sulla propria identità – anche la più augusta e nobile – e più aperto a ciò che le circondava. L’accelerazione che condusse alla definizione del Patto d’integrazione approvato nel 1975 fu determinata da questa nuova coscienza propriamente teologica.

 

L’incontro tra la generazione barthiana formatasi negli anni della Guerra e personalità più giovani che avrebbero avuto responsabilità ecclesiastiche di primo piano nel decennio successivo produsse una proposta concreta e sostenibile di “unione” nel quadro di un processo che non era di fusione né di assimilazione né di unificazione ma di “integrazione”. In questo la sua eccezionalità ecclesiologica, capace di una sintesi che non annulla ma valorizza le specifiche identità storiche, teologiche di due diverse tradizioni. In generale, i patti tra “chiese unite” che si sono realizzati nel mondo, preziosi e rispettabilissimi, sono altra cosa rispetto all’integrazione tra valdesi e metodisti. In questa prospettiva, anche l’annosa questione del nome trovò soluzione nella formula inclusiva della “Unione di chiese” ma anche in due articoli del Preambolo del Patto che riconoscono la ricchezza e la densità spirituale dei percorsi storici delle due chiese:

«Le chiese e la conferenza metodiste si riconoscono nelle caratteristiche del movimento e delle chiese valdesi quali le attestano la loro storia e la collocazione nella testimonianza protestante in Italia» (art. 1); «le chiese e il sinodo valdesi si riconoscono nella testimonianza all’Evangelo resa in Italia dalle chiese metodiste e, con gratitudine al Signore, ricevono il loro contributo di esperienza, di pensiero e di impegno evangelistico» (art. 2).

 Ci pare importante, infine, segnalare, che il “patto” si deve anche all’incontro tra personalità e competenze diverse, tra pastori e laici che dettero un contributo decisivo al suo impianto teologico, ecclesiologico e giuridico.

 

Ricostruire questa storia, come di recente si è fatto con la pubblicazione della Storia dei valdesi (IV volume) e di Metodisti in Italia, entrambi pubblicati da Claudiana, non è un mero esercizio retrospettivo. È anche l’occasione per misurarsi con progetti, discussioni e decisioni coraggiose, che hanno avuto un impatto di lungo periodo sulla vita delle chiese protestanti italiane, non solo quelle aderenti al Patto di Integrazione. Misurarsi con le scelte del passato: un esercizio spirituale e intellettuale che può sprigionare energie e visioni utili per la testimonianza evangelica nell’Italia e nel mondo di oggi.

 

Per approfondire: