50 anni del Patto di integrazione. Una nuova storia!

Ora nuovi compiti attendono le chiese metodiste e valdesi in Italia

 

Da oggi a venerdì vi proponiamo una serie di articoli dedicati ai 50 anni dal Patto di integrazione fra le chiese valdese e metodiste. Gli articoli fanno parte di uno speciale contenuto nel nostro settimanale Riforma di questa settimana.

 

 

Ci sono momenti nella vita delle chiese in cui si pone una domanda cruciale: siamo pronti a reggere la storia? Siamo, cioè, capaci di cogliere il momento cruciale, l’occasione che la benedizione di Dio ci pone davanti e che diventa immediatamente vocazione?

Cinquanta anni fa le nostre chiese si sono trovate davanti a questa sfida, al momento cruciale in cui scegliere se continuare la propria vicenda storica come sempre, isolatamente, o se intraprendere una strada nuova, certo complessa, ma che, probabilmente sarebbe stata una strada in cui poter essere più efficaci nell’annuncio dell’Evangelo nel nostro Paese.

 

Quando, il 27 agosto del 1975, viene approvato il Patto di Integrazione (PI) fra le Chiese valdesi e le Chiese metodiste si conclude un percorso che era iniziato nel 1942. In quel Sinodo le nostre chiese accolgono la sfida evangelica di essere unite nel modo particolare dell’integrazione per rafforzare la propria comunione in vista della testimonianza evangelica nel Paese.

 

Dopo cinquanta anni, è così che dovremmo rileggere quella storia comune ed è da quell’esperienza che dovremmo accogliere le sfide del mondo di oggi all’interno della comunione delle chiese evangeliche in Italia. In questo Patto le persone e le chiese locali conservano la propria identità denominazionale e manifestano la propria unità di fede e disciplina in un’unica assemblea sinodale, così diventano un unico corpo senza sciogliersi gli uni negli altri, un corpo: «che vive nella sola Grazia del Signore» (art.1 della disciplina generale e art.4 del Patto d’Integrazione).

Questa unità di fede e disciplina è definita nel Patto come un comune riconoscimento come Chiese di Gesù Cristo. In poche parole, pur mantenendo le proprie specificità, le Chiese valdesi e le Chiese metodiste si accolgono vicendevolmente riconoscendo le une la storia delle altre così come scritto nei primi due articoli del Patto:

 

Art.1/PI/1975: Le chiese e la conferenza metodiste si riconoscono nelle caratteristiche del movimento e delle chiese valdesi quali le attestano la loro storia e la collocazione nella testimonianza protestante in Italia.

Art.2/PI/1975: Le chiese e il sinodo valdesi si riconoscono nella testimonianza all’Evangelo resa in Italia dalle chiese metodiste e, con gratitudine al Signore, ricevono il loro contributo di esperienza, di pensiero e di impegno evangelistico.

 

Questo comune riconoscimento viene ad assumere la fisionomia di un corpo unico di cui fanno parte le chiese che «da secoli remoti il Signore ha conservato nelle Valli valdesi, le chiese sorte in vari paesi per l’opera di predicazione valdese, le chiese metodiste che sono in Italia testimoni anch’esse della volontà del Signore che si è servito di loro da oltre un secolo per l’annuncio dell’Evangelo tra le popolazioni italiane» (d. Norme interpretative punto 1. del PI).

 

Così l’integrazione è stato un cammino di reciproca accoglienza tra le chiese valdesi e metodiste ma anche un comune riconoscimento, gli uni si riconoscono negli altri. Ma come è stato possibile? Il testo del PI, che abbiamo citato, ci dice chiaramente che questo comune riconoscimento si basa sull’evidenza che sia la storia delle chiese valdesi sia quella delle chiese metodiste è stata benedetta dal Signore che ha sostenuto e conservato le prime per secoli, ha permesso la nascita di chiese valdesi in Italia al di fuori delle Valli e in altri Paesi, si è servito delle chiese metodiste per l’annuncio dell’Evangelo. Il riconoscimento reciproco nasce allora dalla constatazione che siamo tutti sorti da una chiamata, una vocazione che ci precede e trascende e siamo ancora viventi per la benedizione del Signore, tutto in vista non di un’autoconservazione ma della missione, della testimonianza in questo Paese.

 

Oggi restano ancora tutte le sfide che coloro che ci hanno preceduto hanno avuto il coraggio di affrontare anche attraverso il PI. Come possiamo accogliere tali sfide nel nostro tempo? Certo le nostre chiese stanno attraversando un momento complesso e di crisi generale, ma dovremmo chiederci con maggiore forza e onestà se tale crisi non sia semplicemente dovuta alla diminuzione dei membri di chiesa, alla carenza pastorale o a un’organizzazione generale troppo complessa, ma sia invece dovuta a una crisi più profonda che riguarda la fede e l’impegno per la testimonianza evangelica. Ci manca il coraggio di chi ci ha preceduto, il coraggio di affrontare la sfida del cambiamento non per risolvere problemi interni e organizzativi ma per essere pronti alla missione nel Paese che è, anch’esso, profondamente cambiato.

 

Le sfide che ci raggiungono riguardano la secolarizzazione, la mancanza di senso, la richiesta di trovare risposte nuove alla questione di Dio e alla spiritualità in generale; inoltre siamo colti da una profonda crisi politica e culturale che si esprime anche nella crisi del patto sociale, della partecipazione democratica e della cittadinanza, nel ripresentarsi in Europa, ma non solo, di posizioni xenofobe, razziste, omofobe e di rifiuto dell’accoglienza e della comunione. Davanti ai cambiamenti della società e della chiesa come possiamo trovare nuove strade che rendano la predicazione evangelica uno strumento per ritrovare speranza e incoraggiamento?

 

È certamente una questione da affrontare come generazione e non può certo essere risolta da una commissione o un gruppo di lavoro. È la questione della vocazione e del vivere la chiesa nello spazio pubblico, vicino alle persone. Dopo cinquant’anni è questo il tempo della riflessione per il futuro, grati al Signore per tutti questi anni che ci hanno preceduto.

 

Così oggi oltre alla nostra integrazione siamo in una comunione nuova con l’Unione delle Chiese evangeliche battiste e con la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, si tratta di un fronte comune, di una unità di intenti che dobbiamo far crescere per rispondere alla vocazione che ci accomuna. Abbiamo una storia importante e sappiamo bene che al centro della nostra vita di credenti e di chiese resta sempre la Parola di Dio e ogni passo che faremo per rispondere con gioia e coraggio alla vocazione evangelica e ogni buon risultato che potremo scoprire sarà sempre a lode di Dio solo.

 

 

Luca Anziani è presidente del Comitato permanente dell’Opcemi – Opera per le chiese evangeliche metodiste in Italia

 

 

Qui di seguito la scheda descrittiva del Patto curata dall’agenzia stampa Nev – Notizie Evangeliche

 

La valorizzazione reciproca dei propri doni

 

Il Patto di integrazione fra le chiese metodiste e le chiese valdesi è stato adottato dalle massime assemblee delle rispettive chiese (Sinodo valdese e Conferenza metodista) riunitesi contemporaneamente a Torre Pellice (Torino) nell’agosto del 1975. Il programma di attuazione del Patto si è concluso nel 1979 quando, per la prima volta, i rappresentanti metodisti e valdesi hanno formato un’unica assemblea sinodale.

 

Il Patto di integrazione realizza l’unità della chiesa salvaguardando e valorizzando l’identità di ciascuna delle chiese che partecipa all’integrazione. Le due chiese, cioè le due tradizioni confessionali, sono mantenute e valorizzate nel Patto: le comunità che sino al 1975 erano valdesi o metodiste sono rimaste tali, con il loro sistema di nomina dei deputati e la gestione del patrimonio immobiliare; i membri di chiesa sono metodisti o valdesi, registrati come tali nelle rispettive comunità di appartenenza. I membri di chiesa possono partecipare a pieno titolo alla vita ecclesiastica e al governo di una chiesa metodista o di una chiesa valdese, con eguaglianza di diritti e di doveri; così come i pastori e le pastore metodisti e valdesi possono avere cura di una comunità valdese o metodista con uguale diritti e doveri, riconosciuti interamente nel loro ministero sia dai valdesi sia dai metodisti.

 

La vita ecclesiastica che si svolge sul piano regionale e generale è regolata dalle Discipline ecclesiastiche valdesi, che i metodisti hanno fatto proprie contribuendo poi a predisporre insieme ai valdesi una regolamentazione comune. Anche gli organi centrali e regionali, cioè la Tavola valdese, le Commissioni esecutive distrettuali e i Consigli di circuito sono espressi in comune, secondo le norme dell’ordinamento valdese che assicurano la partecipazione metodista alla gestione degli affari e degli interessi comuni. Con la firma del Patto d’integrazione è stato creato un nuovo ente, l’Opera per le chiese evangeliche metodiste in Italia (Opcemi) con personalità giuridica riconosciuta anche da parte dello Stato, che gestisce il patrimonio immobiliare delle chiese metodiste e assicura la continuità dei rapporti con il metodismo mondiale e con le varie organizzazioni ecumeniche. Unitario è il luogo decisionale, il Sinodo delle chiese metodiste e valdesi, dove sono tracciate le linee di impegno e di testimonianza comuni.