50 anni fa a Colonia: Keith Jarrett
Il fascino, la perdurante fortuna e i limiti di un concerto che ha fatto epoca
Sono cinque minuti abbondanti, belli per la musica ma angoscianti per i luoghi e la vicenda che evocano: Nanni Moretti (Caro diario, 1993), in sella alla sua Vespa, percorre i luoghi dove morì Pier Paolo Pasolini il 2 novembre 1975. Cinque minuti fatti di cascate di note che paiono dirigersi in mille rivoli; melodie che si sviluppano fra armonie tradizionali e sperimentazione, per poi essere soppiantati da altri temi; ritmi che si contraddicono, fra musica “colta”, swing e blues. In più, il falsetto del solista, che accompagna la sua improvvisazione. Cinque minuti pescati all’interno di una epocale improvvisazione di 67 minuti – bis compreso –: il Concerto di Colonia, che Keith Jarrett tenne il 24 gennaio 1975 al Teatro dell’Opera della città renana. The Köln Concert, il disco di “pianoforte solo” più venduto nella storia del jazz (tre milioni e mezzo di copie). Poi, l’autorizzazione, concessa dall’artista dopo molte insistenze, ad autorizzare la stampa della partitura.
Come, la partitura? Ma non era un’improvvisazione?
Il Concerto di Colonia è anche un paradosso, di cui parliamo con Luigi Bonafede, musicista jazz, pianista e batterista, per molti anni anche docente in Conservatorio. Se cerchiamo di capire i motivi che hanno reso così celebre quella serata e quell’album, essi non sono esclusivamente estetici: «Molto ci ha messo la casa discografica – spiega Bonafede –: la tedesca ECM è specializzata in jazz, in musica “colta” di ricerca e in contaminazioni fra i generi musicali; e gode di una indiscussa autorevolezza, una vera “corazzata”». «Per decenni la maggior parte dell’attività musicale jazzistica era stata appannaggio dei musicisti di origine afroamericana – prosegue –, da Miles Davis a Charlie Parker a John Coltrane e tantissimi altri. Negli anni ’70 viceversa si sviluppa molto, anche in sede discografica, una produzione di gran livello, da parte di musicisti europei, fra cui il sassofonista norvegese Jan Garbarek, con cui Jarrett ha realizzato, in quartetto, i dischi forse migliori. Ora Jarrett, come altri pianisti jazz bianchi, ha realizzato una performance che, a mio vedere, si intuiva che potesse piacere al mondo “classico”».
Quanto al “trasferimento” su una partitura stampata di quella che era stata una serata di improvvisazione, va detto che «innanzitutto le parti più melodiche sono trascrivibili, ma molto più difficile è trascrivere quelle più ritmiche, dove è difficile dare una indicazione del tempo». Inoltre, «il jazz prevede delle regole molto forti, all’interno delle quali poi si realizza l’improvvisazione, questo tanto a livello armonico quanto a livello ritmico». Una conferma viene dal libro di Davide Sparti, sociologo e filosofo presso l’Università di Siena1: «Nel jazz improvvisato non tutto è permesso (…). Vi sono moltissimi casi di errore, ad esempio nel rispetto del tempo o della struttura armonica del brano (…), momenti in cui il musicista percepisce che qualcosa non funziona». «È un processo davvero spietato», conferma Emanuele Cisi, sassofonista che ha collaborato con una conferenza-concerto, nel 2022, a un’iniziativa pubblica di Riforma; «ogni decisione va presa in tempo reale, non puoi ritrattare, cambiare nulla…»2. E tuttavia, dice ancora Sparti, «tali situazioni sono per l’improvvisatore materiale, lo spunto di riflessione per successive elaborazioni».
Un processo sempre aperto, dunque. Lo dicono anche gli sportivi, allenatori di sport di squadra o grandi solisti come i tennisti: si impara dalle sconfitte, dalle défaillance… Vale per chi, soprattutto nell’ambito classico, al Conservatorio, deve sostenere esami di improvvisazione (pianoforte, organo, etc.) o per chi ha creato dei dischi legati a eventi occasionali, come quando l’organista francese Jean Guillou (1930-2019) realizzò delle improvvisazioni dedicate agli astronauti della missione “Apollo 8”.
Ma allora, se poi anche una improvvisazione lunghissima viene messa su carta, come quando la sceneggiatura di un film viene desunta alla moviola, dove sta la differenza? Lo vedrà chi ascolta il pianista francese François Mardirossian che, a Lione, proprio oggi conclude una tre giorni, in cui ri-esegue il celebre concerto.
«La questione non è tanto fra improvvisazione e trascrizione – conclude Bonafede –: si tratta di capire se il jazz vuole continuare a essere sé stesso, come è stato per decenni quello americano, che per i musicisti di discendenza afroamericana era anche occasione di riscatto sociale; Davis e Coltrane erano musicisti dalla capacità tecnica “mostruosa”, una capacità che però non veniva usata per far vedere che erano bravi. La musica era la vera protagonista, non il singolo musicista; il jazzista improvvisa, e così sarà sempre, ma i musicisti che hanno fatto la storia del jazz rischiavano di più, osavano di più in fatto di tensione emotiva, senza la quale il jazz diventa noiosissimo. Il futuro di questa musica, che sia scritta o no, sta nella capacità, o meno, di coinvolgere le persone non esperte».
È così per ogni forma di comunicazione artistica. Se qualcuno, ascoltando The Köln Concert in vinile o in cd, sentendone le parti più melodiche si è avvicinato al jazz, ben venga; se qualche amante della musica classica si è avvicinato al jazz, ben venga; se qualche appassionato di jazz ha apprezzato un modo diverso di suonare e di inventare, benvenuto anche lui: portare altra gente ad ascoltare bella musica è sempre l’obiettivo.
1. D. Sparti, Suoni inauditi. L’improvvisazione nel jazz e nella vita quotidiana. Bologna, il Mulino, 2005.
2. E. Cisi, A cosa pensi quando suoni? Una vita jazz. Blònk editore, 2022.