Schweitzer, tre volte precursore
Il 14 gennaio 1875 nasceva una figura apicale del XX secolo: medico missionario, teologo, musicista e molto altro
Esegesi biblica, musica, impegno umanitario: «Se Schweitzer avesse praticato, al livello al quale lo ha fatto, anche una sola di queste tre attività, ciò sarebbe bastato ad assicurargli un posto di rilievo nella storia del Novecento» (F. Ferrario, La teologia del Novecento, Carocci, 2011): Albert Schweitzer le ha compiute tutte e tre. Per coincidenza, mentre nelle chiese evangeliche cadeva la “Domenica della Cevaa” (12 gennaio), si approssimava (il 14) l’anniversario della nascita del teologo, musicista e medico, che fu missionario a Lambaréné in Gabon, nato a Kayserberg, in Alsazia nel 1875.
«È una figura tutta da ricomprendere e da rivalutare anche sotto il profilo della dimensione interculturale propria di ogni azione missionaria – afferma Paolo Naso, già direttore di un master presso la Sapienza Università di Roma centrato sulla mediazione tra culture e religioni, che ne ha parlato predicando domenica a Torre Pellice –. Troppo spesso e troppo a lungo Schweitzer è stato ingabbiato nello stereotipo del “missionario coloniale”, espressione di una logica imperialista anche sotto il profilo culturale. In realtà, i suoi scritti – penso, a esempio, alle Storie africane, in Italia edite da Feltrinelli a cura di Goffredo Fofi – e l’organizzazione dell’ospedale di Lambaréné evidenziano una grande sensibilità interculturale che presupponeva il riconoscimento della ricchezza della cultura indigena. Così come merita una riflessione il suo approccio olistico alla malattia e alla sofferenza. E ancora, le sue parole sulla immoralità dei brevetti medici che alzano i costi e rendono di fatto impossibile l’accesso alle terapie per milioni di africani, oltre che di eccezionale attualità, suonano come un giudizio severo sulla società occidentale e la cultura del profitto che, con buona ragione, agli occhi dei popoli del Sud globale sembra costituirne l’anima più profonda».
E che dire dello Schweitzer studioso della Parola di Dio? «Schweitzer è stato un biblista di prim’ordine e un teologo – ci dice Eric Noffke, professore di Nuovo Testamento alla Facoltà valdese di Teologia –, e questo ha costituito il quadro in cui ha espresso tutti i numerosi doni che gli erano stati affidati. In quanto biblista, si può dire che la sua dote maggiore sia stata la capacità di sintetizzare con estremo acume lo stato della ricerca del suo tempo e di reagire ad essa con elaborazioni originali. Ha scritto poco, ma quel poco ha costituito un contributo molto ricco alla storia della ricerca. Su Paolo ha scritto prima uno status quaestions degli studi, oggi poco noto, ma soprattutto il saggio La mistica dell’apostolo Paolo (1930, pubblicato in italiano da Ariele nel 2011), al suo tempo poco apprezzato, ma riscoperto alla fine del XX secolo nell’ambito delle Nuove Prospettive su Paolo, il filo di ricerca che ha rimesso in discussione tutto quel che si pensava della teologia dell’apostolo. L’idea di una teologia “sperimentale”, frutto delle esperienze carismatiche delle comunità paoline, che portava alla coscienza di un’unione “mistica” con Cristo, è oggi quasi comunemente accettata. Più nota ancora, forse, la sua ricerca sul Gesù storico: la Storia della ricerca sulla vita di Gesù (1903) pubblicata in italiano da Paideia (ult. ed. 2019)».
Un libro subito famoso, perché?
«Mentre le ricerche su Paolo sono state riscoperte solo qualche anno dopo la morte di Schweitzer (1965) – prosegue Noffke –, il suo lavoro sul Gesù storico ebbe l’effetto immediato di mettere fine a un secolo almeno di ricerca liberale sul tema. La sua tesi è che le vite di Gesù scritte nel corso del XIX secolo rispecchiano più la teologia dei ricercatori che la storia reale. Il suo esame degli scritti sul tema è dettagliato e sagace: coglie con molto acume le caratteristiche di quegli studiosi, e ne deriva un quadro accurato e profondo di più di cent’anni di ricerca biblica. È un saggio sulla teologia liberale e ottocentesca in generale, che però può beneficiare della progressiva scoperta, pubblicazione e traduzione di un numero sempre crescente di apocrifi dell’Antico Testamento, come il I libro di Enoc, Giubilei o l’Ascensione di Isaia. Questa novità chiedeva agli studiosi del tempo di ripensare l’immagine del giudaismo del I secolo, fino ad allora ricostruito, erroneamente, soprattutto sulla base degli scritti rabbinici (in realtà molto successivi). Schweitzer (con pochissimi altri) seppe cogliere questo impulso a modificare un quadro assestatosi nei secoli e a riscoprire un Gesù ebreo apocalittico. Questa sua proposta, però, è stata ripresa solo di recente e oggi è maggioritaria».
Di Schweitzer organista e musicologo ricordiamo J. S. Bach, il musicista poeta, su cui Nicola Sfredda, musicista e docente al Conservatorio di Mantova, autore per Claudiana di La musica nelle chiese della Riforma, non ha dubbi: «L’immagine di Bach che Schweitzer ci trasmette nel suo libro è sicuramente legata alla consapevolezza teologica del compositore. Questo testo, benché risalga al 1905, ci sembra tuttora valido nella sua tesi fondamentale: si individua una simbologia del linguaggio musicale, che attribuisce a ogni figura musicale un riferimento preciso nell’espressione dei sentimenti umani, che per Bach sono i sentimenti del credente in tutti gli aspetti fondanti della sua fede. Perciò egli fa un’analisi molto dettagliata di queste figurazioni musicali, collegate strettamente con il testo nella musica vocale, ma che poi ritroviamo anche nella musica strumentale e che quindi possono essere interpretate in modo analogo».
E l’organista? «Lo Schweitzer organista rimanda a una lettura profonda del contenuto spirituale della musica di Bach. All’orecchio dell’ascoltatore attuale il suo può sembrare uno stile interpretativo desueto: a esempio troviamo lo stacco di tempi piuttosto lenti, ma in realtà leggendo il suo libro notiamo l’accuratezza con la quale egli ha studiato l’interpretazione della musica di Bach: a esempio il fraseggio, le accentuazioni di alcuni suoni nella frase musicale, che un’eccessiva velocità non permettono di cogliere. Notiamo poi che egli ha precorso la moderna concezione della prassi esecutiva, perché ha ritenuto molto importante che si curasse l’esecuzione su strumenti antichi; viceversa oggi, nonostante gli studi che sono stati fatti, prevale spesso una concezione virtuosistica del suonare lo strumento, nella quale la velocità sembra più importante del fraseggio, ben valorizzato invece da Schweitzer. Un esempio pratico: la grande Passacaglia in do minore, costituita da una serie di variazioni sopra un basso ostinato, che ha le movenze di una danza lenta, è l’occasione per esprimere una concezione spirituale profonda, la qual cosa invece si perde in una esecuzione troppo veloce».