Ma come stanno al mondo gli uomini?

La violenza di genere non ha pause, sembrano non esistere adeguati strumenti di contrasto. Il problema è culturale: chi compie un atto di dominio deve capire che subisce una perdita nella propria umanità

Il 25 novembre, Giornata internazionale per il contrasto alla violenza di genere, rischia di essere, come tutte le ricorrenze, un’occasione formale e retorica. Chi non è contro la violenza? Eppure il contrasto della violenza non né indolore né neutro. Tutti siamo pronti a condannare la violenza ma meno disponibili a mettere in discussione luoghi comuni, rappresentazioni e aspettative condivise. Se la violenza maschile è frutto di una cultura consolidata contrastarla vuol dire agire un conflitto.

 

La data del 25 novembre ci chiede anche di fare, ogni anno, il punto su che cosa sia cambiato, che cosa si sia fatto e sia possibile fare. La sensazione frustrante è che nulla cambi nonostante negli ultimi dieci anni si siano moltiplicate le campagne di sensibilizzazione, i servizi, le innovazioni normative. La conta delle donne uccise dai propri compagni in una sorta di guerra quotidiana e molecolare, continua apparentemente immutabile.

 

Dovremmo riconoscere che la risposta della società alla violenza di genere è ancora inadeguata e contraddittoria. I media continuano a raccontarla come una forza estranea e oscura: l’esplosione inspiegabile di uomini fino a quel giorno tranquilli e rispettabili, il frutto di una patologia individuale. L’allarme sociale per la violenza di genere viene strumentalizzato per alimentare politiche xenofobe e repressive. Paradossalmente questa strada finisce per rimuovere il problema delegandolo alle Forze dell’ordine e sollevando la società dalla responsabilità di mettersi in discussione: mettiamo in galera gli autori e mettiamoci il cuore in pace. Anche i percorsi per autori di violenza, se vengono costretti a rimuovere la complessità per corrispondere alle logiche del penale e dunque a misurare, certificare e “disciplinare”, finiscono per tradire il loro scopo di promuovere un cambiamento profondo.

 

«Non accettava la separazione»: dietro questa frase si celano interpretazioni tra loro contrapposte. La più immediata enfatizza l’assurdità della sproporzione della reazione. Una, insidiosa e ambigua, legge la violenza come “deficit di virilità”, frutto di un disordine. Si alimenta così la nostalgia per quella norma maschile perduta che dominava le donne, ma regolava i comportamenti maschili. Eppure è proprio quell’ordine gerarchico che genera la violenza.

 

Perché l’esperienza per tutti e tutte dolorosa di una separazione risulta così intollerabile negli uomini scatenando questa reazione distruttiva e autodistruttiva? Molti uomini dopo aver ucciso rivolgono la violenza contro sé stessi o si consegnano al carcere. Non è semplicemente il dolore per l’abbandono: è l’esperienza di impotenza incompatibile con il mito di autosufficienza a cui siamo stati allevati. La reazione esplode di fronte alla libertà di una donna che dice di no, che se ne va, e la violenza si autolegittima come punizione per una colpa femminile: una scelta illegittima e inaccettabile.

 

Oggi la cultura del controllo e del dominio si veste dei panni del vittimismo. Uomini minacciati dal cambiamento, discriminati dalle pari opportunità, aggrediti dall’opportunismo femminile, castrati dalla dittatura del politicamente corretto. Il rancore frustrato maschile non si esprime solo nella dimensione individuale: è uno dei pilastri della paranoia del complotto ostile che alimenta i populismi nazionalisti. La frustrazione individuale trova una sponda nel senso comune. Al contrattacco misogino e sciovinista non basta replicare con la “predica delle buone maniere”. Non si tratta di chiedere agli uomini di esercitare la virtù virile dell’autocontrollo o di “rinunciare” al dominio.

 

Forse è più utile provare a svelare quanto ogni atto di dominio e di violenza comporti una perdita per la propria umanità. Vedere quanto ognuno, imponendo sé stesso, si tradisca. Così l’ironia verso le “femminucce”, o lo stigma verso l’omosessuale impongono a tutti i maschi la disciplina della virilità. Il dominio e l’inferiorizzazione dell’altro, l’incapacità a leggere le differenze fuori da una logica gerarchica ci impongono un’esperienza alienata e coatta.

 

La disumanizzazione degli altri, la rappresentazione paranoica di un Occidente circondato da un mondo minaccioso, che oggi legittima la guerra come unica soluzione, ci disumanizza. La strada del potere si rivela un vicolo cieco che impoverisce le nostre relazioni. Abbiamo vissuto nel mito, come uomini e come cittadini, della libertà dalle relazioni e ci ritroviamo incapaci di pensare una libertà nelle relazioni. L’immaginario patriarcale non offre agli uomini un senso sul loro stare al mondo. Non può darci le risorse per vivere in un mondo privato dalla rassicurante convinzione della nostra superiorità e della nostra autosufficienza. Quel mondo è tramontato e abbiamo bisogno di altre parole, altri desideri che ci liberino dalla distruttività delle passioni tristi.