Un nuovo senso per la parola vocazione

Una riflessione sul lavoro e sull’etica in vista della Settimana della libertà intorno alla data del 17 febbraio e alla viglia del convegno sul lavoro promosso dalle chiese evangeliche

 

Lavoro e vocazione costituiscono un binomio fondamentale nel lessico riformato. La rivalutazione del lavoro come ambito della vita umana e l’affermazione del suo valore in antitesi all’ascetismo extramondano sono diretta conseguenza della proclamazione della salvezza per Grazia e Fede e non per opere. In questa prospettiva, il lavoro perde il carattere di punizione per il peccato originale e diventa il terreno sul quale si risponde alla chiamata di Dio. Più specificamente, nel pensiero di Calvino, l’attività professionale è un canale fondamentale per la costruzione dell’identità e per il rafforzamento dei legami sociali.

 

Quasi superfluo ricordare quanto la riflessione teologica ed etica su questo tema, propria sia dei Riformatori sia dai loro epigoni seicenteschi, abbia contribuito in misura non trascurabile all’affermarsi della modernità: è questa la tesi dei classici della sociologia quali Weber e Troeltsch, oppure, volgendosi in un ambito più vicino, del filosofo Mario Miegge, della cui morte ricorre in questi mesi il decennale. Nella parabola della modernità, il lavoro diventa anche il punto d’accesso alla cittadinanza democratica, e la fonte dei diritti politici e sociali.

 

La condizione presente è segnata da cambiamenti profondi, che impongono una drastica rielaborazione di questo patrimonio concettuale. Già da decenni si parla della “fine della società del lavoro”, per usare le parole del sociologo Ulrich Beck; questa diagnosi deve però essere letta in tutta la sua complessità. L’autonarrazione celebrativa del capitalismo postindustriale che si vuole “immateriale” insiste sull’obsolescenza del lavoro per dar risalto piuttosto a creatività, connettività, capacità di innovazione. D’altro canto, la spinta delocalizzante del capitalismo globale delinea quella che sempre Beck ha definito come divisione internazionale del lavoro, alla quale si ricollega l’immenso fenomeno migratorio. In un mondo globalizzato, inoltre, lo stato sociale quale emerso nel dopoguerra non riesce più a mettere in atto misure di redistribuzione. Il capitalismo postindustriale produce una condizione di generalizzata precarietà, che mina alla base non solo le condizioni di sopravvivenza ma anche i diritti di cittadinanza.

 

Alla riflessione politica si pongono quindi sfide di grande portata, in primo luogo la necessità di ripensare il legame fra lavoro e diritti di cittadinanza; altrettanto, o forse ancor più radicali, sono le domande che si aprono alla riflessione etica e teologica sulla vocazione, che tanto ha caratterizzato il mondo protestante. Perché deve essere proprio il lavoro retribuito – e pertanto, necessariamente parte dei meccanismi di sfruttamento e di alienazione propri del capitalismo – a costituire il terreno sul quale si incontra il Signore? è possibile evitare di essere risucchiati dalle logiche del capitalismo, vecchio o nuovo? Ma soprattutto, in un mondo nel quale domina la precarietà e nel quale si celebra la flessibilità, è ancora possibile pensare al lavoro, all’attività professionale come un modo per rispondere alla vocazione che Dio ci rivolge?

 

Evidentemente, ripetere il binomio vocazione/lavoro all’epoca della flessibilità e della precarietà negli stessi termini in cui lo ha articolato la Riforma magisteriale non è un’opzione. Si tratta piuttosto di cercare vie alternative ponendosi anche domande scomode, a esempio se il lavoro sia veramente una via all’emancipazione: un interrogativo che si fa ancor più inquietante specificamente alla luce dell’esperienza di fede protestante. Si apre così un nuovo ventaglio di domande: che cosa implica cercare il senso della propria vita “fuori” dal lavoro? perché non considerare le attività extralavorative come il fulcro della propria esistenza? Ma in questo caso, come si può capire che cosa costituisca veramente una vocazione senza confonderla con le cose “che ci fanno stare bene”, siano esse yoga, tango, giardinaggio, o marmellate artigianali? Volgersi alla prospettiva calviniana, che vedeva il lavoro come una attività che crea communication mutuelle, che cioè mette in comune qualcosa può essere un primo passo nella ricerca un nuovo senso della parola “vocazione”.

 

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