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Le chiese attraverso il Covid

Lo scorso 5 maggio l’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato la fine pandemica di Covid-19. Oggi quella tragedia non è più qualificabile come emergenza globale; si pone la parola fine all’idea di pandemia, ma non alla scomparsa del virus e della sua patologia, oggi nella maggior parte dei casi contenibile e curabile. L’emergenza dichiarata ufficialmente il 30 gennaio 2020 oggi chiude il suo ciclo.

Abbiamo ascoltato Alessandra Trotta, moderatora della Tavola Valdese, e Giovanni Arcidiacono, presidente dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia.

– Che ruolo hanno assunto le chiese durante la pandemia?
Trotta: «Nel periodo della massima chiusura, penso si possa riconoscere che le chiese – in misura variabile – sono rimaste fra i luoghi più aperti, punti di riferimento importanti sia come luoghi fisici in cui una qualche forma di attività in presenza è potuta ripartire abbastanza presto ed è stata mantenuta il più possibile; sia come comunità che hanno mantenuto come prioritario l’obiettivo di raggiungere i lontani, di confortare i soli, alimentare le relazioni, di guardare al di là delle proprie mura e dei propri confini, per vedere dolori, sofferenze e bisogni oltre l’emergenza pandemica che rischiava di rinchiudere tutto e tutti in una bolla. Credo anche che nelle nostre chiese si sia sfuggiti a un fenomeno che in altre realtà si è verificato, e cioè quelle della crescita di una religiosità di puro conforto, determinata e condizionata nelle sue forme e nei contenuti dalla paura. Non abbiamo mai assecondato una religiosità di questo tipo ed è un bene che non siamo caduti nella tentazione di andare in questa direzione neppure in un tempo così drammatico».
Arcidiacono: «Durante la pandemia le chiese battiste hanno accolto con responsabilità e disciplina le prescrizioni imposte dal rischio di contagio dal Covid-19 e dal conseguente lockdown. La risposta complessiva di gran parte delle chiese locali è stata rappresentata da un lato dall’uso tecnologico dell’online per il culto domenicale, gli studi biblici e altri servizi comunitari; dall’altro da un progressivo processo di isolamento, di sofferenze e forse anche di angosciante rassegnazione subiti dalla parte più debole della popolazione battista (bambini, giovani, anziani), aggravando per certi versi quel processo di secolarizzazione che ha contribuito ancor prima della pandemia alle difficoltà della predicazione, della fede e della testimonianza dell’Evangelo. In questo contesto, il ruolo delle chiese è stato “plurale”, nel senso ch’esso non si è esaurito nel garantire l’ascolto della Parola del Signore, ma si è dispiegato anche attraverso progetti di diaconia locale finanziati dall’opm battista e volti a sostenere il benessere individuale, familiare e comunitario».

– Come escono le chiese, e le persone da questi anni di emergenza?
Trotta: «Molte chiese escono per certi versi infragilite. Si confrontano con il permanere, soprattutto nelle persone più anziane, di comprensibili paure che scoraggiano ancora la partecipazione di molti alle attività in presenza. Hanno pagato un prezzo molto alto, poi, le comunità più interculturali, in cui la condivisione di adeguati spazi e tempi da vivere “insieme” costituisce una parte rilevante dell’impegno di costruzione di realtà veramente inclusive. D’altra parte, come spesso accade nelle situazioni in cui si sperimentano crisi che toccano equilibri già precari e che attraversano (come le nostre chiese in questo momento) periodi di transizione anche generazionale, registro a vari livelli una visione più lucida di bisogni e priorità su cui concentrare le energie e le limitate risorse disponibili ed una maggiore disponibilità e apertura a sperimentare cose nuove, conservando anche alcune buone pratiche già sperimentate nel periodo del più rigido lockdown, che al contrario hanno allargato, in modo spesso sorprendente, i confini (anche mentali) delle comunità».
Arcidiacono: «L’emergenza pandemica lascia nelle chiese il suo pesante bagaglio di eredità sia sotto il profilo delle vite personali dei credenti sia sotto quello della vita comune delle chiese. Il timore del contagio ancora oggi aleggia come uno spirito premonitore allenato a diffidare di chi ci sta accanto. Tuttavia, nelle chiese cresce il desiderio dello stare insieme, del respirare il calore della fraternità e della sororità, che alimentano con forza il convincimento degli effetti dannosi della chiusura dei locali di culto e delle attività ecclesiali. Particolare rilievo assume per la testimonianza dell’evangelo la crescente capacità di costruire la resilienza futura delle chiesa, nella consapevole condivisione di appartenenza al Villagio globale, dove le nuove sfide della globalizzazione in termini di povertà, disuguaglianze, restrizioni dei diritti umani e civili, la minaccia nucleare incombente con la guerra in Ucraina e gli effetti disastrosi del riscaldamento climatico, aprono alle chiese nuovi scenari per un ruolo vitale da svolgere nella ripresa post pandemia».

– Tenuto conto di quanto abbiamo vissuto, quale parola biblica può ispirare, orientare e incoraggiare la testimonianza delle nostre chiese nei diversi luoghi in cui sono chiamate a vivere il discepolato cristiano?
Trotta: «Per tutti i tempi, ma soprattutto per un tempo e un contesto sociale e culturale che appaiono sempre più condizionati da ansie che alimentano visioni scure del futuro, divisioni e competizioni rabbiose che rischiano di produrre scelte insane, credo sia preziosissimo il totale riorientamento dello sguardo e dell’intera esistenza a cui Gesù chiama i suoi discepoli verso la fine del cosiddetto sermone sul monte: Non siate dunque in ansia, dicendo: “Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?”. Perché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più (Matteo 6, 31-33)».
Arcidiacono: «In un certo senso la triste esperienza della pandemia è paragonabile a quella dell’esilio babilonese descritta nel Salmo 126, 5 “Quelli che seminano con lacrime, mieteranno con canti di gioia”. Così come riemerse nel popolo d’Israele la grande opera di Dio del ritorno dall’esilio, anche le nostre chiese, dopo la pandemia, sono chiamate a mantenere salda la fiducia nel Signore. Gesù Cristo ha già sconfitto la morte donandoci la vita eterna. In Lui sta la forza della nostra fede. Con essa le chiese sono in grado di far risplendere la gioia della speranza nonostante la semina in lacrime, trovando la sua radice nella parabola del granello di frumento che deve morire per portare frutto (Giovanni 12, 24). Anche Gesù Cristo, nostra primizia, ha vinto il mondo nella croce donandoci con la risurrezione la speranza viva. Con la fede in Gesù Cristo crocifisso, le chiese accolgono l’incoraggiamento del Signore per annunciare coraggiosamente qui ed ora, nel tumulto delle tribolazioni della storia, il Regno di Dio e la sua giustizia».