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«La riforma della giustizia d’Israele mette a rischio la sua economia»

Le prossime settimane saranno decisive per la democrazia israeliana. La coalizione guidata dal premier Benjamin Netanyahu si appresta ad approvare una riforma che rivoluzionerà il sistema giudiziario del paese. Una modifica che ha molti oppositori, ma su cui il governo sembra intenzionato a tirare dritto. Obiettivo principale, limitare la capacità della Corte Suprema di sorvegliare sul potere esecutivo e legislativo. In particolare si vuole introdurre la cosiddetta “clausola di superamento” che consentirà alla Knesset, il parlamento israeliano, di scavalcare con una maggioranza semplice (61 voti su 120) le sentenze della Corte Suprema.

Una modifica necessaria, sostiene la coalizione Netanyahu, per arginare l’interventismo della Corte. Un danno irrimediabile all’equilibrio tra poteri e alla democrazia, secondo chi si oppone alla riforma. In quest’ultima sono previste anche modifiche sul sistema di nomina dei giudici e dei consulenti legali dei ministeri. Il risultato sarebbe un chiaro e netto rafforzamento del potere della maggioranza di governo a scapito del potere giudiziario. Qualcosa di simile a quanto accaduto in Polonia e Ungheria, scrivono allarmati professori e premi Nobel israeliani e non, in una lettera aperta al governo di Gerusalemme in cui si chiede una revisione della riforma. L’appello mette in particolare in luce i rischi per l’economia israeliana nel caso in cui le modifiche dell’esecutivo Netanyahu andassero in porto così come annunciate. «Il timore – si legge – è che una tale riforma possa influire negativamente sull’economia israeliana, indebolendo lo Stato di diritto e portando così Israele nella direzione dell’Ungheria e della Polonia. Sebbene le nostre opinioni sulla politica pubblica e sulle sfide che la società israeliana deve affrontare siano molto diverse, condividiamo tutti queste preoccupazioni. Un sistema giudiziario forte e indipendente è una parte fondamentale di un sistema di controlli ed equilibri. Minarlo sarebbe dannoso non solo per la democrazia, ma anche per la prosperità e la crescita economica», la posizione dei firmatari della lettera. Undici premi Nobel l’hanno firmata, tra cui Peter Diamond del Mit, Oliver Hart di Harvard, Paul Milgrom di Stanford e Edmund Phelps della Columbia. Anche l’economista italiano Luigi Zingales dell’Università di Chicago ha aderito.

A entrare più nel dettaglio delle critiche alla riforma – dal punto di vista economico – sono stati in questi giorni due ex governatori della Banca centrale d’Israele Karnit Flug e Jacob Frenkel . Nel mondo moderno, spiegano, «la crescita economica e la prosperità richiedono stabilità, un sistema legale che garantisca – tra le altre cose – i diritti di proprietà, il rispetto della legislazione di bilancio, il rispetto della legge sulla banca centrale, l’applicazione di regolamenti che promuovano la concorrenza e regole del gioco chiare e stabili che consentano e facilitino lo sviluppo di un orizzonte di pianificazione a lungo termine. Tutto ciò crea un ambiente favorevole allo sviluppo economico, in particolare all’innovazione e all’eccellenza». Israele, evidenziano i due economisti, da questo punto di vista è sempre stato un esempio, diventando un’ambita destinazione per gli investimenti stranieri e venendo premiato nelle valutazioni delle agenzie di rating internazionali.

«Un fattore chiave che determina la posizione di Israele nell’economia globale è la forza della sua professionalità e l’indipendenza del suo sistema giudiziario. – proseguono Flug e Frenkel – La salvaguardia della separazione dei poteri (tra i rami legislativo, esecutivo e giudiziario) è il principio cardine su cui poggia la democrazia. L’equilibrio nelle relazioni tra questi tre rami è estremamente delicato; il solo accenno di sospetto sull’impegno del governo a rispettare questo principio potrebbe minare l’immagine di Israele, fondamentale per la comunità degli investitori in Israele e all’estero».
Secondo entrambi gli autori dell’articolo, pubblicato sul Jerusalem Post, alcuni miglioramenti al sistema giudiziario sono effettivamente da compiere. Ma non nella misura radicale proposta dal governo. «Il pacchetto complessivo di misure proposto comporta gravi rischi per il carattere stesso del regime democratico di Israele e per la sua immagine internazionale. L’economia israeliana opera in un mondo molto competitivo; tutto ciò che facciamo viene esaminato da vicino, a volte con poca pazienza e poca tolleranza. – avvertono i due economisti – In questo scenario competitivo, qualsiasi colpo all’economia israeliana derivante dall’adozione di misure affrettate e sbagliate rischia di essere costoso e difficilmente riparabile. Una sobria strategia di gestione del rischio porta a una conclusione inequivocabile: data la significativa dipendenza dell’economia israeliana dai mercati finanziari internazionali e dagli standard e dalle norme accettate, non dobbiamo mettere a rischio la posizione dell’economia israeliana sui mercati globali dei capitali».

Nel frattempo il canale di notizie N12 ha riferito che nelle ultime settimane cinque aziende unicorno israeliane – aziende il cui valore supera il miliardo di dollari – hanno ritirato ingenti fondi da Israele a causa delle pressioni degli investitori preoccupati dalle conseguenze della riforma. Un’azione simile era stata annunciata in precedenza da altre grandi realtà come Wiz, Papaya Global, Verbit e Skai. Secondo l’emittente israeliana l’importo totale dei fondi ritirati dalle banche israeliane ammonterebbe ora a 7 miliardi di dollari.

Tra le preoccupazioni espresse dagli investitori, la possibilità che il nuovo sistema – molto influenzato dal potere politico – porti a decisioni arbitrarie e impreviste, a eventuali cambiamenti delle regole del gioco, a un’assenza di controllo e supervisione giurisdizionale efficace. Questo, scrivono gli ex governatori Flug e Frenkel, è quello che è accaduto in Turchia, Ungheria e Polonia dove il sistema di pesi e contrappesi tra i rami poteri è stato minato lasciando mano libera al solo esecutivo. «In Turchia, dove – a partire dal 2015 – il controllo giudiziario è stato fortemente limitato e la banca centrale è stata privata della sua indipendenza, il calo degli investimenti esteri è stato molto più marcato che in altri Paesi nello stesso periodo e il suo rating creditizio è crollato. In Ungheria, dove l’assalto al sistema giudiziario è iniziato nel 2009, il rating del Paese è stato abbassato per diversi anni ed è tuttora inferiore a quello che aveva prima dell’inizio del processo e l’impatto sugli investimenti esteri è stato molto più netto rispetto a quello di altri Paesi negli anni successivi alla crisi economica globale. In Polonia, dove l’indebolimento del sistema giudiziario è iniziato nel 2016, si è registrato un calo (temporaneo) degli investimenti esteri, in contrasto con il (piccolo) aumento medio dei Paesi OCSE. In tutti e tre i Paesi, le agenzie di rating internazionali hanno citato la riduzione del controllo giudiziario, indebolendo così il sistema di pesi e contrappesi, come fattore che influenza negativamente il rating del credito». «È importante notare – aggiungono i due economisti – che per quanto riguarda l’Ungheria e la Polonia, che sono membri dell’Unione Europea, le istituzioni di quest’ultima limitano la capacità di minare il sistema democratico e l’indipendenza delle varie istituzioni. Non essendo membro dell’Unione Europea, Israele non dispone di una simile protezione istituzionale».

In conclusione Flug e Frenkel rimarcano il fatto che Israele è lontana dall’avere una situazione simile a Polonia, Ungheria e Turchia. Ma «è importante capire che esiste un legame tra processi che in apparenza non sembrano collegati, come la capacità di revisione giudiziaria delle azioni del governo e la fiducia degli investitori in un’economia stabile. Le misure proposte per indebolire il processo di revisione e supervisione giudiziaria aumentano il rischio di ripercussioni dure e dolorose. Israele – il loro appello – dovrebbe evitare di correre questo rischio».

Tratto da moked.it

foto da Chatham House