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Sostegno psicologico al lavoro dell’agente penitenziario

Lunedì 31 gennaio si è svolto, presso la Sala Riunioni della Casa Circondariale di Regina Coeli a Roma, un incontro con la Direzione del Carcere sull’andamento del Progetto itinerante di sostegno psicologico al lavoro dell’agente di Polizia Penitenziaria. Il progetto, nato nel 2018 per gli istituti penitenziari di Civitavecchia su proposta della locale chiesa battista e finanziato con i fondi opm battista, si è poi ampliato a Regina Coeli (grazie al lavoro diaconale svolto dalla chiesa battista di Roma-Trastevere), proponendo condizioni e linee guida che saranno monitorate e definite dal Ministero della Giustizia per tutti gli istituti penitenziari d’Italia. All’incontro hanno partecipato: la direttrice dell’Istituto Sergi e le vicedirettrici Bormioli e Passaretti, il commissario di Polizia penitenziaria Giacalone, la responsabile dell’area educativa e psicologica De Panfilis, il pastore Giuseppe Miglio vicepresidente dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia (Ucebi), chi scrive nella veste di responsabile della diaconia carceraria della chiesa battista di Civitavecchia, i partner del Progetto Agenti 2021: cappellano Vittorio Trani della Vo.re.co (Volontari Regina Coeli), Carlo Condorelli dell’associazione SEAC Coordinamento regionale Lazio, e la psichiatra Mariapaola Recco.

Lo psicologo responsabile del progetto, Mauro Gatti, ha riferito in una relazione articolata il lavoro svolto nell’anno 2021, dalla quale è emerso che l’efficacia del progetto sta proprio nella sua caratteristica itinerante la quale, rispetto ad uno sportello, ha la peculiarità di muovere il professionista verso l’agente e non il contrario, come di solito viene interpretato il lavoro dello psicologo.

La ragione di questa diversa prospettiva è dovuta all’interpretazione delle manifestazioni comportamentali dell’agente, colte negli anni da Gatti durante la sua attività di esperto per l’Osservazione e Trattamento della popolazione detenuta svolta nelle sezioni penitenziarie. Gatti ha precisato che l’agente, per la sua continua attività nelle sezioni accanto al detenuto, struttura nel tempo un comportamento con risvolti psicologici di difficoltà a comunicare le proprie emozioni che possono arrivare fino ad una perdita del significato del proprio ruolo. L’attività dell’agente, infatti, consiste nella presenza continua a fianco del detenuto, per ore, giorni, settimane, mesi, anni, diventando di fatto per il detenuto il primo reale riferimento per ogni necessità pratica e psicologica. Un tempo di lavoro così esteso che non ha solo una funzione custodiale. L’evoluzione del suo ruolo ha oggi collocato l’agente in un’attività più ampia, diventando un operatore del trattamento con la funzione di garantire la speranza nelle sezioni, come riportato nello stemma araldico del Corpo ‘Despondere spem munus nostrum’ (garantire la speranza è nostro compito).

L’agente diventa così la persona in grado di intervenire sull’adattamento del detenuto, in quanto è lui ad accogliere la prima voce di chi è ristretto. Ci sono infinite storie rimaste silenziose, di agenti che hanno salvato le vite di detenuti durante l’espiazione della pena proprio per l’attenzione che viene data alla persona ristretta. Di conseguenza un simile contatto così continuo e ravvicinato genera una relazione umana conscia e inconscia, che si individua nel termine osmosi penitenziaria. Basti pensare a cosa può portare un contatto giornaliero di compenetrazione con drammi familiari e personali, con le emozioni, i vissuti, le aspettative, le tensioni nella gestione di un individuo deprivato dell’immenso valore della libertà. L’assorbimento costante nell’ambito lavorativo di queste energie continuamente fluttuanti e senza sosta è il primo vero grande incipit della nevrosi noogena (disorientamento della mente che induce lentamente ad una perdita di lucidità psichica).

E sempre per osmosi, il malessere che l’agente percepisce viene captato inevitabilmente anche dalla sua famiglia, assistendo ad un travaso continuo di variazioni del tono dell’umore. Considerate queste premesse, il senso di aiuto psicologico per l’agente di Polizia Penitenziaria dato in questi anni nell’ambito del Progetto itinerante, è consistito e consiste in primis in una presenza costante del professionista: andare psicologicamente verso l’emozione dell’agente significa raggiungerlo nelle sezioni e riconoscere l’attività che egli svolge. Il Progetto, sostenuto dall’Ucebi dal 2018, apprezzato e riconosciuto nella sua efficacia dalla Direzione, dal Corpo di Polizia Penitenziaria, dalle Aree di competenza dell’Istituto di Regina Coeli, dai diversi partner, ha concluso la sua fase di Progetto Pilota trasformandosi in un modello cui l’Amministrazione Penitenziaria potrà riferirsi per sostenere, correttamente e in modo focalizzato, il lavoro degli agenti.

Sembrano infatti davvero maturi i tempi per la diffusione di una presenza psicologica nelle sezioni dedicata all’agente attraverso la modalità itinerante, l’unica che si rappresenta funzionale alla psicologia di questo operatore penitenziario che per il suo benessere psicologico necessita di considerazione e significato nel ruolo che svolge.