Il dialogo come cura del trauma collettivo

Dalla Shoah a Gaza, il prof. Björn Krondorfer invita a superare la logica del confronto tra sofferenze per aprire uno spazio di riconoscimento e umanità condivisa

 

Il professor Björn Krondorfer, direttore del Martin-Springer Institute e docente di Studi Religiosi alla Northern Arizona University, è tra i più autorevoli studiosi di memoria, traumi, riconciliazione e responsabilità intergenerazionale. Nato in Germania, Krondorfer lavora da anni negli Usa per promuovere il dialogo tra culture e religioni, con particolare attenzione alla Shoah, ai processi di riconciliazione e alle forme di educazione alla pace. Lo abbiamo intervistato a margine della sua recente partecipazione alla presentazione ufficiale presso il Senato del progetto di formazione “Tra Resistenza e Resa: per (soprav)Vivere liberi!”, promosso dall’Ucebi e dal Cdec.

 

– Quando i traumi si scontrano, c’è il rischio di una sorta di competizione tra gruppi che si percepiscono come vittime di ingiustizia?

«La nostra reazione istintiva è vedere prima le nostre ferite e, col tempo, sofferenze dell’altro. Una volta che le narrazioni nazionali si sono formate, esse influenzano le esperienze individuali e spesso lasciano poco spazio al riconoscimento del male fatto agli altri dal proprio gruppo. Lo psichiatra e psicoterapeuta Vamik Volkan parla in questo contesto di “traumi scelti”, ma non nel senso che scegliamo i nostri traumi. Il termine indica piuttosto che le società scelgono, nel tempo, come parlare del trauma, costruendo una cornice che dà significato alle sofferenze e alle perdite individualmente vissute. Quando due gruppi hanno vissuto sconvolgimenti sociali di violenza massiva, le loro narrazioni di “traumi scelti” spesso entrano in conflitto. È certamente il caso di israeliani e palestinesi. Ogni gruppo cerca coesione per sé stesso cercando, al contempo, di cancellare l’altro. Imparare col tempo a vedere anche le ferite dell’“altro” è l’unico modo per evitare le dinamiche dannose della sofferenza competitiva. Queste sono alcune osservazioni generali che diventano più complesse se si aggiungono le dinamiche di asimmetria di potere (ineguale potere tra gruppi), la politica globale o, negli ultimi anni, il crescente potere dei social media con il loro potenziale intrinseco di disinformazione e manipolazione».

 

– Da anni lei lavora con israeliani e palestinesi di tutte le età impegnati nell’elaborazione di memorie difficili (la Shoah e la Nakba). Dopo il 7 ottobre e la distruzione di Gaza, è possibile riprendere questo percorso?

«È molto difficile. Le ferite, le perdite e le paure sono ancora vive, e nessuno ha ancora abbastanza distanza da queste calamità per intravedere la strada da seguire. Sappiamo che esiste un trauma su vasta scala, ma non sappiamo ancora che forma esso assumerà nelle diverse comunità. In questo momento non possiamo semplicemente riprendere il cammino che un tempo avevamo percorso con quegli israeliani e palestinesi disposti a confrontarsi. Per usare un’immagine, dobbiamo reimparare a camminare prima di poter trovare un nuovo sentiero: un cammino fatto di “tentativi ed errori”, mentre le narrazioni sociali del trauma prenderanno forma (troveranno i loro contorni)».

 

– Riguardo al conflitto in Medio Oriente, molti sostengono che il governo israeliano sta infliggendo al popolo palestinese le stesse dinamiche storiche della Shoah. Che cosa ne pensa?

«In generale, non è utile sovrapporre una forma di violenza di massa a un’altra. Fare paragoni diretti può essere efficace per esprimere indignazione morale, ma raramente aiuta le comunità coinvolte ad andare avanti. Ogni caso di calamità di massa, terrore o violenza genocidaria merita un linguaggio e un’analisi specifici, anche se la sofferenza individuale – a prescindere dal gruppo a cui appartengono le persone – è la stessa. I paragoni diretti, questa è la mia esperienza nel lavoro con gruppi in conflitto, portano ad atteggiamenti difensivi e controaccuse, esattamente ciò che non serve se si vuole avviare un percorso verso una lenta ricostruzione della fiducia tra i gruppi in conflitto. A esempio, supponiamo che qualcuno sostenga che la fame imposta a Gaza sia la stessa di quella imposta agli ebrei nel ghetto di Varsavia: sul piano individuale, gli effetti della denutrizione prolungata sul corpo e sulla mente sono identici: sono orrendi. Non c’è giustificazione per l’uso della fame come arma.

Ma se si inquadrano le esperienze passate e presenti come se fossero la stessa cosa, ci si ritrova in una “guerra” di inutili somiglianze o differenze: contare le calorie giornaliere, il numero di morti, la durata del blocco alimentare, le ragioni e le ideologie che guidano il blocco alimentare ecc. e poi elencare le somiglianze e le differenze e cercare di valutarle. Ciò che possiamo imparare dalla storia è questo: la fame è stata usata in passato per sottomettere o uccidere popolazioni indesiderate – che si tratti del Piano della Fame della Germania nazista imposto all’Unione Sovietica (applicato specificamente durante l’assedio di Leningrado), al programma di fame di Stalin in Ucraina (Holodomor), della fame intenzionale nei campi nazisti, alla fame di massa in Cina, fino all’attuale fame in Sudan. Ognuno di questi casi è stato motivato da ragioni (ideologiche) diverse, ma in ciascuno di essi gli esseri umani hanno sofferto le stesse estreme sofferenze».

 

– Quale significato ha oggi l’educazione alla consapevolezza storica?

«Una risposta breve e sobria: è già successo, può succedere di nuovo. Conoscere il passato ci aiuta a riconoscere i segni e le dinamiche quando oggi deviamo dal giusto cammino. Spesso, quando guardiamo alle calamità del passato, ci sentiamo “al sicuro”, perché pensiamo di essere ormai oltre quel tempo. Dal nostro punto di vista attuale, può sembrarci incomprensibile – se non addirittura assurdo – che persone si siano fatte la guerra per ideologie, religioni o territori. Ma possiamo facilmente essere trascinati nelle stesse dinamiche, oggi, a meno che non abbiamo una prospettiva storica che ci permetta di vedere quanto possano essere assurde le nostre certezze attuali, con cui giustifichiamo le nostre guerre di oggi».

 

– Lei è direttore del Martin-Springer Institute, fondato da un sopravvissuto ebreo-polacco alla Shoah, che nel 2026 festeggerà il suo 25° anniversario. Quali sono le sfide dell’Istituto per i prossimi anni?

«L’educazione alla Shoah e al genocidio sta attualmente attraversando una crisi, negli Stati Uniti e altrove. Proprio quando questi due ambiti di studio (Shoah/genocidio) si erano finalmente uniti nell’ultimo decennio, oggi si trovano nuovamente uno contro l’altro. È una sfida per un istituto come il nostro, che offre programmi in cui affrontiamo questioni complesse in un dialogo reciproco.
Il nostro obiettivo è andare oltre le narrazioni nazionali e comunitarie che amiamo raccontare su noi stessi, spesso a spese dei diritti e della vita altrui.


La mia più grande speranza per un istituto come il nostro è che vogliamo insegnare ai nostri studenti e alle nostre comunità a indagare con curiosità e mente aperta, invece di adottare posizioni che ignorano l’umanità dell’altro. Cerchiamo il dialogo, non le diatribe».

 

Immagine: monumento all’Olocausto, Berlino