Charta Oecumenica, ieri e oggi

Un racconto fra la prima stesura del documento, 25 anni fa, fino alla firma della versione aggiornata la settimana scorsa

 

A una riunione del Consiglio europeo del WSCF (Federazione mondiale studenti cristiani) di circa 25 anni fa venni a conoscenza della preparazione di una sorta di Magna Charta dell’ecumenismo in Europa da parte delle conferenze episcopali cattoliche (CCEE) e delle chiese anglicane, ortodosse e protestanti (KEK). Come movimento giovanile ecumenico eravamo stati coinvolti: potevamo proporre degli emendamenti alla bozza e avremmo partecipato al grande evento legato alla firma della “Charta Oecumenica”. Da parte nostra c’era il salutare scetticismo giovanile, ma allo stesso tempo ne percepivamo l’importanza.

 

Era la prima volta che il cristianesimo europeo nella totalità delle chiese “storiche” (non parteciparono le chiese della galassia carismatica e pentecostale) preparavano e firmavano un documento insieme. È interessante che l’impulso venne dall’esterno. Fu Jacques Delors, mitico (almeno per me) presidente della Commissione Europea tra il 1985 e il 1995, che in una riunione con KEK e CCEE, invitava le chiese a «dare un’anima all’Europa». Erano altri tempi, c’erano altre speranze. Tra parentesi, anche in un altro contesto, quello dei festival del cinema, fu il mitico (qui, non solo per me) Moritz de Hadeln, direttore del Festival di Locarno nel 1973, a spingere le organizzazioni cattolica e protestante a nominare la prima giuria ecumenica. Insomma, forse il mondo ha più bisogno delle chiese di quanto noi immaginiamo, o comunque ne ha bisogno in maniera diversa.

 

Tornando alla Charta Oecumenica, inizialmente l’evento della firma avrebbe dovuto tenersi a Tessalonica, ma «per motivi di sicurezza» (si narrava di serie minacce da parte di integralisti ortodossi) si spostò a Strasburgo, meno suggestiva nella storia cristiana, ma una delle città che ha subito maggiormente i conflitti europei. L’Incontro ecumenico europeo del 2001 fu un grosso evento: durò una settimana, vi parteciparono duecento delegati e un numero consistente tra staff e stampa. L’idea di fondo era di «passare il testimone»: cento dirigenti adulti delle chiese avrebbero donato la Charta ai cento giovani leader. Tra questi ultimi eravamo in tre italiani, ora rispettivamente membro del Consiglio FCEI (io), membro della Tavola valdese (Davide Rostan) e presidente UCEBI (Alessandro Spanu). La pastora Gianna Sciclone non era solo membro del Board della KEK, ma era una dei sei relatori della Charta. Tuttavia, avremmo scoperto che il testimone che ci era stato passato non interessava sostanzialmente a nessuno. Non era un documento dogmatico-normativo, cioè non entrava negli ordinamenti delle chiese firmatarie, tanto meno nel diritto canonico cattolico.

 

Eppure era un bel documento, imperfetto, ma con spunti decisamente interessanti: si riconosceva il male che le chiese si erano fatte reciprocamente per secoli, si affermava il legame radicale con l’ebraismo, si dichiara la “stima” cristiana nei confronti dell’Islam, si ammoniva rispetto all’abbraccio mortale dei nazionalismi, si promoveva una cultura di pace e dei diritti umani. Sarà che pochi mesi dopo ci fu l’Undici Settembre con le conseguenze gravissime sul fronte della pace e dei diritti umani, dei rapporti con l’Islam e sul marketing dell’identità forte pronta allo scontro di civiltà, ma la promozione della Charta è uscita dall’agenda delle chiese, anche delle più volenterose («D’altra parte, se non ne parli tu, perché dovrei parlarne io?», l’inconfessabile pensiero). 

 

25 anni dopo si arriva alla firma della Charta Ecumenica 2.0 (non è un nuovo documento, ma un aggiornamento) alle Tre Fontane a Roma. Colpisce il contrasto tra il grande evento di Strasburgo e la modesta cerimonia in un luogo che la maggior degli stessi romani a malapena conosce. Certo, la speranza è che, se il grande evento non ha generato interesse, forse un piccolo incontro possa fare di meglio (anche se non sono gli eventi, ma le chiese a essere responsabili della ricezione di un documento che pur hanno firmato).

 

Come capita con gli aggiornamenti informatici che «mi piaceva di più la versione di prima», ci sono almeno due elementi di peggioramento nel merito del documento, entrambi legati alla forma. Il primo: la Charta di Strasburgo era più bella, omogenea, armoniosa. Non c’erano articoli troppo corti o troppo lunghi: denotava un’attenzione stilistica che la Charta di Roma non ha probabilmente considerato. Il secondo: la Charta di Strasburgo fu firmata anche dalla Chiesa ortodossa russa, con partecipazione attiva dell’attuale patriarca Kirill, al punto che tra chi ha materialmente scritto il documento c’era anche un teologo russo. Quando finirà la Guerra in Ucraina, nell’auspicabile ricostruzione dei rapporti ecumenici con il Patriarcato di Mosca (che ha scelto liberamente di separarsi dal cammino ecumenico europeo di cui era parte attivissima), non si potrà più usare la Charta Oecumenica come base comune di partenza. Tuttavia, la speranza è che una Charta formalmente eccepibile possa dare i risultati che una Charta «che mi piaceva di più» non ha dato. Insomma, forse è vero, come si dice, che il meglio è nemico del bene. Speriamo sia davvero così.

 

 

 Photo: Marianne Ejdersten/CEC, la firma delle Charta nel 2001