Sperare oltre la rassegnazione
Una lettera pastorale rivolta ai cristiani che vivono in Palestina
Una lettera firmata da vari leader cristiani di Gerusalemme e del circondario rappresenta una toccante testimonianza del dramma in corso, delle difficoltà quotidiane, eppure dello spirito che deve rimanere forte e saldo nel mantenere la testimonianza, la presenza nei territori e la certezza di una futura riconciliazione.
Ecco il testo
1. Chi siamo?
Siamo un gruppo ecumenico di cristiani a Gerusalemme, che include Sua Beatitudine il Patriarca Latino Emerito Michel Sabbah, l’Arcivescovo Greco-Ortodosso Attallah Hanna e il Vescovo Luterano Emerito Munib Younan, membri del clero e laici, che da decenni lavorano per l’uguaglianza, la giustizia e la pace. Continuiamo le nostre riflessioni sulla situazione a Gerusalemme e in Terra Santa, nel mezzo degli attuali orrori a Gaza e in Cisgiordania.
La nostra visione si fonda sulla realtà che ci sono due popoli in questa terra, israeliani e palestinesi. Entrambi hanno il diritto naturale e storico di vivere qui in sicurezza e dignità. Qualsiasi soluzione politica che metta a repentaglio tale realtà non porterà pace e riconciliazione. Tutti gli individui, sia israeliani che palestinesi, devono poter vivere in piena uguaglianza, giustizia e pace in Palestina/Israele. Siamo membri attivi della nostra comunità, la Chiesa di Terra Santa, di Palestina/Israele, che riflette insieme nell’amore, come un’unica famiglia. Il nostro obiettivo è approfondire la nostra comunione e proclamare il significato e la missione della nostra presenza e testimonianza come cristiani radicati in questa Terra.
2. Alla nostra gente
In questi giorni dolorosi, essendo parte integrante della realtà che ci circonda, camminiamo attraverso strade segnate da morte, sfollamento, fame e disperazione. Un genocidio è in atto a Gaza e rischia di estendersi anche ad altre parti della Palestina. La pulizia etnica a Gaza, attraverso la distruzione sistematica di case, ospedali e istituti scolastici, avanza di giorno in giorno. Pratiche simili vengono applicate in Cisgiordania, attraverso i violenti attacchi dei coloni israeliani con la complicità dell’esercito israeliano. Case vengono demolite, interi villaggi distrutti e i loro abitanti lasciati senza tetto; migliaia di prigionieri sono in detenzione amministrativa senza alcuna protezione legale; persone vengono uccise e ferite, ulivi vengono bruciati, raccolti distrutti, greggi di pecore e bovini uccisi o rubati, proprietà private saccheggiate.
Non possiamo dimenticare che, nel corso della nostra storia, Dio ci ha chiamati ad essere agenti di pace, mediatori di giustizia e ministri di riconciliazione tra le diverse componenti etniche e religiose di questa terra. Tuttavia, molti di noi hanno perso molto, continuano a lottare quotidianamente per provvedere alle proprie famiglie e vivono nella paura di ciò che verrà, sfidati da drammatici interrogativi sulla nostra presenza e sul nostro futuro in questa Terra.
Una scelta da fare: restare o non restare?
Ci spezza il cuore vedere famiglie espulse o costrette a lasciare la Palestina-Israele. Non critichiamo coloro che se ne vanno per scelta, perché conosciamo il peso che tutti portiamo. Preghiamo e li benediciamo ovunque vadano. Tra noi, membri del Corpo di Cristo radicati nel suolo della Palestina, ci sono però coloro che hanno scelto di restare, di parlare e di agire. Coloro che restano, per scelta o meno, devono comprendere collettivamente chi siamo e perché restiamo.
Rimanere è testimoniare
Rimanere in questa terra non è semplicemente una decisione politica, sociale o pratica. È un atto spirituale. Non restiamo né perché sia facile né perché sia una fatalità. Restiamo perché siamo stati chiamati. Nostro Signore Gesù nacque a Betlemme, camminò sulle colline della Galilea, pianse su Gerusalemme e subì una morte ingiusta perché fu fedele alla sua missione fino alla fine. Non fuggì dalla sofferenza. Vi entrò, traendo vita dalla morte. Così anche noi restiamo, non per rendere romantica la sofferenza, ma per testimoniare la presenza e la potenza del Signore nella nostra Terra Santa ferita.
Rimanere significa dire con la nostra vita: questa terra, ferita e sanguinante, è ancora santa. Rimanere significa proclamare che la vita palestinese – musulmana, cristiana, drusa, samaritana, bahai – e la vita ebraico-israeliana è sacra e deve essere protetta. Significa ricordare che la resurrezione inizia nella tomba e che anche ora, nella nostra sofferenza collettiva, Dio è con noi. Come ha affermato il Patriarca Latino, Cardinale Pierbattista Pizzaballa, durante la sua recente visita a Gaza, “Cristo non è assente da Gaza. È lì: crocifisso nei feriti, sepolto sotto le macerie, eppure presente in ogni atto di misericordia, in ogni candela nell’oscurità, in ogni mano tesa verso chi soffre”. Dio vede e condivide le nostre sofferenze e le nostre lotte, come ha fatto in Gesù, e Dio ci ama, ognuno di noi, come un figlio. Siamo figli della risurrezione. La nostra stessa presenza è una testimonianza del nostro Signore Risorto, Gesù Cristo.
Desideriamo continuare la nostra ininterrotta testimonianza del Vangelo, fin dalla Pentecoste, nei luoghi dove tutto ha avuto inizio. Siamo le pietre vive che animano i Luoghi Santi, che pellegrini da tutto il mondo vengono a visitare per ravvivare la loro fede. Senza le nostre comunità, questi luoghi sarebbero solo siti archeologici o musei.
Rimanere è amare
La nostra presenza è una forma di resistenza, non di odio, ma di amore profondo e duraturo. Amiamo questa terra non come una proprietà, ma come un dono. Amiamo i nostri vicini musulmani ed ebrei non in astratto, ma in solidarietà e nei fatti. Rimanere significa continuare a piantare alberi, crescere figli, medicare ferite e accogliere lo straniero. Significa insistere sul fatto che il Regno di Dio – dove i miti sono innalzati e i superbi umiliati – non può essere oscurato da bombe, fame o muri.
Rimanere significa seguire Cristo che disse: “Beati gli operatori di pace”. Ma la pace, come sappiamo, non è passività. È il duro lavoro di liberazione, uguaglianza, giustizia, verità e misericordia. La nostra missione, quindi, non è quella di ritirarci, ma di costruire: case, chiese, scuole, ospedali e giardini. Siamo chiamati a essere comunità di fede che modellino un’altra via – la via di Dio – in una terra assetata di vita. Sappiamo che in questa vita la pace perfetta è un’utopia, tuttavia, è attraverso la nostra testimonianza qui che ne godremo ancora più pienamente nel Regno di Dio.
Rimanere è essere Chiesa
Insieme costituiamo una Chiesa viva e incarnata nella terra dell’Incarnazione. Fin dai tempi della Pentecoste, le nostre liturgie sono state cantate in momenti di gioia e di sofferenza, dando espressione a molte lingue e culture: aramaico, greco, armeno, arabo, latino e molte altre. I nostri sacramenti fluiscono con una speranza antica e incrollabile. Preghiamo oggi, radicati nelle nostre ricche e antiche tradizioni, ma pienamente presenti e fedeli al mondo che ci circonda.
La nostra missione è essere sale e luce proprio nel luogo in cui Cristo pronunciò per la prima volta queste parole. Sale che guarisce le ferite della discriminazione, dell’occupazione, del genocidio e dei traumi continui. Luce che si rifiuta di spegnersi, anche quando l’oscurità è sempre più profonda. E anche se saremo ridotti a una manciata di persone, intensificheremo e rafforzeremo il nostro ruolo di sale e luce.
Siamo chiamati a servire i sofferenti, a difendere gli oppressi, a dire la verità ai potenti e a vivere vite profondamente radicate nel Vangelo. Dobbiamo preparare i nostri giovani, rafforzare le nostre comunità e approfondire la nostra fede, non solo per sopravvivere, ma per vivere pienamente, anche ora, in mezzo alla morte e alla distruzione. Non siamo soli.
Le nostre chiese sono state costruite dai nostri antenati sulle fondamenta della Chiesa primitiva. “Nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova: il fondamento è Gesù Cristo” (1 Corinzi 3:11). Anche ora seguiremo l’esempio della Beata Vergine Maria, degli Apostoli, dei Martiri e di tutti i santi di questa terra nei primi secoli, tra cui i santi Elia, Giorgio, Barbara, Nicola, Mar Saba e la schiera di martiri e santi, insieme a tutti i nostri antenati, che hanno fatto progredire il Regno di Dio nel nostro Paese e in tutto il mondo.
Speranza oltre la rassegnazione
Non siamo ingenui. Conosciamo i poteri dell’egoismo, dell’avidità, dell’espropriazione, del male e della morte che prevalgono nel nostro mondo. Ma conosciamo anche la Croce e la tomba vuota. Rimanere in Palestina-Israele significa credere che la resurrezione sia possibile, anche qui e ora. E sappiamo che la via verso la Resurrezione è una via crucis. Pertanto, affermiamo che le promesse di Dio non vengono cancellate dalla guerra, dal genocidio o dall’esilio. Siamo anche consolati dal risveglio di così tante persone in tutto il mondo che manifestano solidarietà con la nostra lotta e ammiriamo il loro coraggio nel cercare di cambiare le politiche attuate dai leader mondiali che rimangono sordi al grido degli affamati e ciechi alle scene di sofferenza.
Quindi, diciamoci l’un l’altro: restiamo perché siamo chiamati, restiamo perché siamo inviati. E viviamo perché Cristo vive in noi.
Che il Dio della giustizia e della riconciliazione ci dia forza, coraggio e speranza. Che possiamo essere fedeli al Vangelo, all’umanità, al nostro popolo e alla nostra terra. E che noi, Chiesa in Palestina-Israele, permettiamo a Cristo di operare attraverso di noi per porre fine alla discriminazione, all’occupazione, al genocidio e alla sofferenza di tutti i popoli di questa terra: “Siamo tribolati in ogni modo, ma non schiacciati; sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; atterrati, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo” (2 Corinzi 4:8-10).
3. Ai nostri Pastori.
Amiamo e rispettiamo i nostri anziani e pastori. Apprezziamo i vostri sforzi e sacrifici in ogni aspetto della vita, dalla guida spirituale alla leadership della comunità, fino al duro lavoro per portare assistenza al nostro popolo in termini di alloggio, istruzione, assistenza sanitaria e previdenza sociale. Riconosciamo che in questi tempi le difficoltà che affrontate si sono moltiplicate.
Vi ringraziamo per le vostre dichiarazioni relative alla dura situazione che stiamo vivendo e in difesa dei valori umani e morali. Ci rallegriamo in modo particolare quando parlate con una sola voce e prendete iniziative comuni, come le recenti visite a Gaza e Taybeh. Preghiamo e speriamo che queste parole e iniziative comuni possano intensificarsi e diventare una realtà costante in tutti gli aspetti della vita, proclamando che siamo una cosa sola.
Tuttavia, a volte i fedeli si lamentano del fatto che alcuni di noi, leader ecclesiastici, clero e religiosi, siamo troppo distanti dalla gente, dalle loro lotte e sofferenze quotidiane. A volte, anche nelle parrocchie, le omelie dei sacerdoti sono distaccate dalla vita della gente. Quei pastori che rimangono distanti sembrano dire a volte che il nostro problema non è il loro. Alcuni, con le loro parole e azioni, sembrano suggerire che questa non è la loro guerra, poiché non ha ancora toccato le loro chiese, i loro conventi e le loro comunità. Questa mancanza di solidarietà è una grave ferita alla nostra comunione.
Tra coloro che ricoprono posizioni di responsabilità nella Chiesa di Gerusalemme, dobbiamo lavorare insieme per una maggiore consapevolezza. I responsabili a tutti i livelli devono tenersi aggiornati su quanto sta accadendo, soprattutto per quanto riguarda gli eventi attuali e le tragedie che colpiscono il nostro popolo. Coloro che sono venuti da lontano con buone intenzioni per servire nella Chiesa di Gerusalemme devono essere incoraggiati e aiutati a conoscere la storia e la cultura di questa terra e dei suoi popoli. Le idee preconcette devono lasciare il posto alla conoscenza e alla verità sul conflitto in Palestina/Israele, affinché insieme possiamo affrontare meglio le sue sfide. Ciò è necessario per promuovere uno spirito non di “noi” e “loro” all’interno della Chiesa, ma piuttosto di un “noi” comune. È un “noi” che si estende in cerchi sempre più ampi: noi cristiani, noi palestinesi, musulmani e cristiani insieme, noi popolo di questa terra, palestinesi e israeliani.
Siamo disponibili e al vostro servizio per aiutarvi, nostri padri e pastori, a investire ancora di più nella guida del popolo, fornendo linee guida più chiare sulla posizione della Chiesa in materia di uguaglianza, giustizia e pace. Il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa della Chiesa Cattolica è un prezioso tesoro in questo ambito. La nostra gente è assetata di un insegnamento che la aiuti a comprendere come il Vangelo si applichi alle proprie vite e come la speranza possa essere mantenuta viva all’interno delle proprie famiglie.
Siamo anche disposti e pronti a riflettere insieme su come la Chiesa possa proporre una maggiore riflessione sulla situazione politica e sulla posizione della Chiesa al riguardo. Questo è sicuramente necessario per tutte le componenti del Corpo di Cristo: vescovi, clero, religiosi, laici. In questo modo, possiamo tutti adempiere meglio alla nostra responsabilità. Questi momenti di formazione periodica possono essere in sintonia con la necessità di pregare per la nostra terra e i suoi popoli, di predicare parole di guida e conforto nelle nostre omelie e di consigliare coloro che sono nel bisogno mentre affrontano le conseguenze di questa situazione catastrofica.
Il nostro popolo ha bisogno di pastori che condividano pienamente la vita del loro gregge, prendendosene cura e guidandolo nella vita quotidiana, disposti a intraprendere azioni coraggiose ogni giorno per sfidare lo status quo sociale e politico che proclama solo morte e distruzione. Ciò significa che i nostri pastori devono manifestare sempre di più il loro profondo senso di compassione e il forte senso di radicamento in questa terra e nella sua storia.
4. Camminare insieme
Questo è il momento di unirci come Chiesa in modi nuovi. È un momento di maggiore solidarietà e di altruistico sostegno reciproco. Come individui potremmo certamente lamentarci e sentirci impotenti, ma come Chiesa abbiamo nel nostro DNA un modo per superare le crisi attraverso la nostra fede condivisa. All’interno della comunità cristiana, tutte le qualifiche, le professioni e le classi sociali sono rappresentate: ricchi e poveri, sani e malati vivono fianco a fianco. Come possiamo mettere insieme le nostre idee, competenze e risorse?
Come possiamo sviluppare e intensificare le relazioni e il sostegno reciproco tra di noi? Come possiamo, secondo le nostre capacità e posizioni, contribuire a creare una società più equa e giusta, promuovendo una pace giusta e duratura in questa terra?
Il compito dei vescovi è quello di ispirare, guidare e incoraggiare l’intera comunità dei credenti affidata alle loro cure, in comunione con i loro sacerdoti e ministri ordinati.
I fedeli laici sono invitati a collaborare strettamente con loro. Li ascoltano, li incoraggiano e li sostengono, ma non devono temere di dare loro consigli quando lo ritengono necessario.
Siamo sempre consapevoli che i cristiani non sono estranei, non sono stranieri, e devono assumersi le proprie responsabilità nella società. Attraverso la preghiera, uno stile di vita retto, l’amore cristiano per tutti e la cura del prossimo, ci impegniamo nella lotta per l’uguaglianza, la giustizia e la pace. Sempre non violenti, ci opporremo all’oppressione, all’occupazione e alla discriminazione, pronti a collaborare con musulmani ed ebrei che condividono gli stessi valori e la stessa visione di costruire una società giusta con uguali diritti e doveri per tutti gli abitanti.
La situazione nella nostra terra rimane complessa e incerta. Tuttavia, come cristiani riconosciamo che è un privilegio vivere in questa terra, quella in cui nostro Signore Gesù Cristo visse, predicò la Buona Novella, soffrì, morì e risuscitò dai morti. Qui, la Buona Novella della Risurrezione fu annunciata per la prima volta e da qui si diffuse in tutto il mondo.
Il nostro Signore e Salvatore, Gesù Cristo, ci incoraggia: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il regno” (Lc 12,32). Siamo chiamati nel suo Spirito, e da esso rafforzati, a camminare insieme. Questa è la via della sinodalità, “camminare sulla via comune”.