La speranza come linea guida

Dal messaggio cristiano alla crisi dell’Occidente, non deve mancare la capacità di guardare oltre

 

Vi stiamo proponendo ogni giorno i due articoli di resoconto dei lavori delle 4 Conferenze distrettuali in cui sono raggruppate le chiese valdesi e metodiste. Oggi è il turno dei due articoli sul Terzo distretto, che comprende le chiese del Centro Italia.

 

È la speranza uno dei temi su cui la Conferenza del Terzo Distretto è stata chiamata a concentrare la propria attenzione. Le ragioni all’origine di quest’invito sono chiaramente formulate dalla Ced nella sua relazione. 

Il «tema» è già di per sé un argomento composito, pensato come insieme di possibili linee di svolgimento e di altrettanto possibili conclusioni. Della speranza cristiana sono noti i termini, che originano nell’annuncio evangelico della croce e della resurrezione di Cristo, e l’estensione delle loro “propaggini” argomentative, nella connessione con altri temi, quali l’etica, il tempo, la storia (I Pt. 3, 15-16). Per questi intrecci, la comprensione della materia risulta essere un procedimento complesso che configura la materia stessa come una realtà fragile. 

 

La speranza cristiana che si articola a partire da quell’annuncio deve vedersela con il cosa credo, sì, ma anche con il come credo (esperienza soggettiva della fede), su cui il tempo e la storia, con le loro crisi, le loro tragedie, ma anche con i loro benefici, lasciano segni e sedimenti: comportamenti e perciò parole, concezioni. Mi illudo se ritengo che sulla mia pratica di vita credente non pesi tutto questo e mi illudo non di meno se ritengo che quel gravare della storia non sia, o non possa essere a sua volta strumento della stessa pratica credente. Ogni generazione ha fatto con ciò che ha avuto. 

La crisi radicale dell’Occidente è vissuta, sicuramente nella dimensione domestica europea, come un “non avere più”; anzi, come un “non essere più”. In crisi è una sostanza, perciò, inevitabilmente, in crisi è la stessa speranza che nell’Occidente ha avuto un termine importante della e per la propria stabilità (a partire dall’Editto di Milano – 313 d.C.). Ciò che oggi ha questa speranza è esattamente ciò che non ha più. E con ciò che ha, pure farà. Come, ancora una volta?

Sperare è anche un’attendere ragionevole e ciò implica un’altra azione: lo stimare e dunque il pensare le cose, come l’esercizio stesso del vedere dentro – oltre – i fenomeni. Vedere cosa? Che, dall’interno (Stati Uniti) e dall’esterno dell’Occidente (Asia, Africa) vi è chi guarda a esempio all’Europa come alla propria speranza? E dov’è il punto di equilibrio di questo accadere che vedo: nella novità che mi interroga nel cuore del decadimento dell’Occidente, o nella beffa di questo, al termine dei suoi giorni? 

 

La chiesa riunitasi in Conferenza ha ricevuto l’annuncio di Luca 24, 13-35 e ha ritrovato un’accezione di quell’esercizio che nel parlare e nel discutere «insieme» di tutte le cose accadute, senza al momento rendersene conto, ha avuto Gesù sul proprio cammino. La chiesa rinasce così, ri-costruendo familiarità con la discussione – frequentandone la scuola (omiléō) – di tutte le cose accadute e ciò a partire dalle Scritture. La chiesa discute dei fatti e della storia con questi occhiali, il cui utilizzo è come riabilitato dagli accadimenti nuovi. Della morte dell’Occidente quale termine di stabilità della propria speranza è forse il caso che le chiese discutano tra loro, cercando si salvare un orientamento, nell’indirizzo “al secolo” della predicazione, che nel corso del culto conclusivo è stato introdotto a mo’ di apologo, con le parole di Italo Calvino: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. I primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio» (Le città invisibili, 1993).