L’Italia si svuota: la risposta è nel lavoro

Denatalità, spopolamento, invecchiamento; per il sociologo Maurizio Ambrosini serve offrire «un futuro dignitoso e desiderabile ai nostri giovani e ai lavoratori stranieri»

 

Nei giorni scorsi il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha esposto e commentato dati di estrema rilevanza, e non ha usato giri di parole per descrivere attualità e prospettive dell’Italia: «Denatalità, spopolamento specie al Sud e nelle aree interne, carenza cronica di giovani e invecchiamento medio della popolazione». Un quadro definito «drammatico», destinato a pesare moltissimo sui conti pubblici, con il rischio di porre in grande crisi il sistema pensionistico, il welfare, lo stesso mondo del lavoro.

 

In audizione alla Commissione parlamentare di inchiesta sugli effetti economici e sociali derivanti dalla transizione demografica in atto (istituita lo scorso anno, segnale che il tema è considerato oggi finalmente centrale anche dalla politica), il ministro ha parlato di intere comunità «destinate a scomparire» e ha elencato le strategie messe in atto dal Governo per affrontare una sfida la cui origine ha radici profonde. Le prime politiche a tutela della natalità citate da Giorgetti, bonus bebè e parziale esonero contributivo a favore delle mamme di due e tre figli, non appaiono idee inedite, innovative e soprattutto strutturali.

 

Ne abbiamo parlato con Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia delle migrazioni nell’Università degli Studi di Milano: «il discorso dell’inverno demografico è vero, direi ovvio – dice –. Però ce n’è un altro meno ovvio: i pochi giovani che abbiamo vanno all’estero in numero crescente. Il problema non è solo fare più figli ma dare loro un futuro dignitoso, desiderabile. In Italia questo tema viene stranamente trascurato da esponenti governativi e da molti studiosi, che sottolineano la necessità di incrementare le nascite con un approccio che mi sembra non sia cambiato molto dai tempi del fascismo: l’idea che il paese abbia bisogno di braccia. Il paese ha anche molte menti che non riesce a mettere nelle condizioni di lavorare in maniera adeguata».

 

Da tempo Inps e molti imprenditori chiedono maggiore facilità nell’ingresso di lavoratori stranieri, pronti a diventare anche nuovi cittadini, proprio per supportare il mercato del lavoro. Ma la politica su questo tema tace, o interviene con le parole del ministro per denunciare il «far west di giovani che vanno a lavorare all’estero perché attratti da migliori condizioni, e non soltanto nei settori di élite». Il riferimento è ai giovani italiani. Ma assomiglia tanto a quello di molti stranieri che vengono da noi, provenienti da situazioni di indigenza. «Si è sempre meridionali di qualcuno» diceva il Bellavista di Luciano De Crescenzo. L’elefante nella stanza per questo Esecutivo è il tema dei migranti: «Sì. Ovviamente ritengo che ci sia bisogno di immigrati: da alcuni anni lo dicono tra l’altro gli imprenditori stessi. Imprenditori che sull’argomento fino a oggi sono stati troppo silenti, hanno fatto sostanzialmente i pesci nel barile, con successo: hanno cioè lasciato che il compito non felice, impopolare, di chiedere sanatorie e regolarizzazioni di lavoratori stranieri gravasse nientemeno che sulle spalle del sindacato e di altri attori solidaristici tra cui le chiese. Però poi gli immigrati vanno a lavorare per le imprese italiane, e ne beneficiano dunque quegli stessi imprenditori che fanno fare il lavoro sporco agli altri. C’è un fabbisogno evidente di manodopera, tra l’altro in un mercato del lavoro che richiede sostanzialmente molto lavoro manuale e impiega poco lavoro qualificato: quando si dice che in Italia non arriva immigrazione qualificata e si pensa che il problema risieda in politica sbagliate, rispondo che in realtà la prima causa è il mercato del lavoro: ci sarebbero strumenti per far entrare i lavoratori qualificati, penso a esempio alla “Carta blu”, ma in Italia sono usati pochissimo. L’unico settore che attira un’immigrazione qualificata e quello sanitario; per il resto il l’immigrato qualificato è una figura sostanzialmente sconosciuta».

 

Migrazioni affrontate dunque in maniera strutturale, non emergenziale. Studiare, formare, come accade a esempio con i corridoi lavorativi che vedono anche la Chiesa valdese coinvolta nel formare giovani studenti rifugiati per poi vederli assunti dalle aziende italiane:

«Esatto. Pur sostenendo la necessità di lavoratori stranieri, non ne farei soltanto una questione di numeri, perché se arrivassero delle persone impreparate, poco alfabetizzate, non credo sarebbe una acquisizione fortunata, per tutte le parti. Quindi occorrono dei programmi e delle politiche per attrarre l’immigrazione che serve, che abbia quel minimo di competenze, se possibile di conoscenza della lingua italiana, che abbia qui delle reti di riferimento, aspetto quest’ultimo importante: penso a esempio alla figura dello sponsor che sarebbe importante ripristinare, perché i lavoratori possano rapidamente inserirsi ed essere accompagnati a trovare un posto nella società».

 

Il lavoro, per attirare persone, deve essere dignitoso, a partire dai salari: «L’economia italiana è la prima responsabile di questo scarso incentivo nei confronti del lavoro dipendente. le politiche governative che favoriscono in modo sfacciato il lavoro autonomo sotto il profilo fiscale implicitamente fanno poi gravare il peso del prelievo sul lavoro dipendente: questo è uno degli elementi che provoca la compressione dei salari. Quindi è vero: i lavoratori italiani sono pagati poco, per responsabilità delle imprese e degli altri attori economici di un sistema che tuttora cerca la competitività comprimendo il costo del lavoro. Ma una fetta di responsabilità è anche dello Stato e delle sue politiche fiscali».