Il cuore del faraone si è indurito

Il racconto del pastore Ivano De Gasperis che ha tentato di unirsi alla Marcia globale per Gaza a Il Cairo

 

 

Milano, ospedale Niguarda. Una donna palestinese arriva col suo bambino ferito: gli altri nove e il marito sono stati uccisi. La sua storia è il punto di partenza per un grido che si fa azione: “Non si può più restare a guardare”. Non si possono più sopportare le immagini di bambini massacrati che fanno da sfondo alle dichiarazioni ipocrite dei Capi di Stato che si fingono portatori di pace mentre giocano alla guerra, normalizzando l’orrore di un conflitto dove missili e bombe si confondono con gli effetti speciali che illuminano le notti di questa terribile estate. “Sopportiamo tutto con indifferenza travestita da impotenza”: è giunto il momento di dire ancora una volta “basta” e trasformare la compassione in movimento. Sostenuto dai miei familiari e successivamente anche dall’Ucebi e dalla Fcei, ho deciso di partire per l’Egitto. L’ obiettivo è unirsi alla Marcia Globale per Gaza, attraversando il deserto. Destinazione finale: il valico di Rafah, via Al-Arish.

 

Appena atterrato il 14 giugno al Cairo, il primo ostacolo è la polizia. Nonostante le precauzioni – cancellazione di App e contatti, dissimulazione del reale scopo del viaggio – le autorità egiziane sono sospettose. Vengo affidato a un tassista incaricato di allontanarmi dal luogo di ritrovo degli attivisti. Riesco comunque a raggiungerli, ma il clima è tesissimo: controlli, intimidazioni, arresti.

Il gruppo si divide tra chi vuole mantenere un profilo basso e chi intende protestare apertamente. Tra questi, un giovane palestinese viene picchiato fino a fratturargli un piede e rimpatriato dopo alcuni giorni di fermo. L’incertezza cresce. Un ragazzo egiziano, segnato dalle violenze del regime, mi mette in guardia: «È pericoloso qui, cambia albergo e non tornare dagli attivisti». Mi mostra le sue ferite, i segni di pallottole che gli hanno attraversato l’addome, ma nonostante il timore di ritorsioni, mi parla della morte del suo migliore amico durante le proteste contro il regime e mi racconta di atrocità compiute dal regime che mi chiede di non rivelare. Il tentativo di raggiungere Al-Arish si dimostra irrealizzabile nel breve periodo.

 

La polizia ha bloccato gli attivisti giunti da tutto il mondo. E così decide di aiutarmi: mi procura dei soldi egiziani, un autista e un taxi per raggiungere almeno Ismailia, una città vicino Suez. Purtroppo, non facciamo in tempo a partire che la notizia di disordini a Ismailia viene trasmessa alla radio, a cui fa seguito una telefonata al mio autista: «chi accompagna stranieri verso Ismailia viene arrestato». Il tassista, impaurito, rinuncia. Le ore scorrono tra assemblee improvvisate online e piani rimandati. Gli aiuti umanitari portati, purtroppo, vanno ad aggiungersi agli altri rimasti bloccati al confine.

Dopo una serie di tentativi andati a vuoto, decidiamo con alcuni attivisti italiani di andare dal nostro ambasciatore, che si mostra comprensivo verso la delegazione che rivendica una presa di posizione più forte dell’Italia e dell’Europa, affinché si facciano giungere i nostri aiuti al popolo ridotto allo stremo.

 

L’Ambasciatore, i legali egiziani, ormai dimissionari, e i vertici del movimento ci consigliano una rapida fuga, vista l’instabilità data dall’espansione del fronte verso l’Iran e lo spostamento al confine delle truppe egiziane.

Ho ancora con me la mia valigia piena di cibo speciale per i bambini di Gaza: decido di regalarla ai piccoli che giocano scalzi per le strade del Cairo. Accolgono il dono con gioia tra baci, abbracci e sorrisi. Una mamma mi dona un tasbih (strumento usato nell’Islam per recitare preghiere, ndr.). È notte, ma nessuno dorme. I piccoli si rincorrono, costruiscono aquiloni che, ironia della sorte, hanno la forma di una stella di Davide.

 

La partenza per la marcia si trasforma in un ritorno amaro (il 18 giugno), ma carico di consapevolezza e soprattutto di nuovi amici con cui condividere il viaggio, seppur interrotto, che prova a colmare il divario tra le dichiarazioni e le azioni concrete.

Il cuore del faraone si è indurito.

Ciò non significa che Dio non libererà il suo popolo, né che la marcia si arresterà per sempre, anzi, è già ripartita, questa volta in direzione di Bruxelles.

Non smetteremo di marciare, finché il cuore del faraone non si piegherà e le mura del ghetto di Gaza non cadranno! Speriamo prima che altri primogeniti, al di qua e al di là del muro, siano di nuovo costretti a pagare il prezzo di tanta ostinata durezza.

 

 

Foto di Susan Melkisethian