
La morte dei palestinesi, il suicidio di Israele
La parola pace ha poco seguito: eppure va sostenuto chi osa dirla
Orrore. Difficile trovare un’altra parola per definire i sentimenti provati di fronte alle immagini di bambini affamati che cercano di afferrare una ciotola di cibo o delle bombe che colpiscono scuole e ospedali di quello che resta della Striscia di Gaza. Lo stesso orrore provato di fronte all’attentato di Hamas del 7 ottobre di quasi due anni fa. L’orrore non si misura ma la misura della ritorsione israeliana sì, ed è ormai evidente e riconosciuto che essa sia andata oltre ogni legittimità. Lo afferma una commissione delle Nazioni Unite, lo ha sancito la Corte internazionale di Giustizia che sta valutando se l’intervento israeliano si configuri come un genocidio, lo ripete da mesi Amnesty international. Oggi lo riconoscono anche l’Unione Europea e il governo italiano. Israele reagisce indignato a queste accuse che giudica infamanti e antisemite. Ma proprio perché esiste e cresce nel mondo, l’argomento dell’antisemitismo non può essere meccanicamente evocato di fronte alle critiche e alle condanne subite da Israele. Né può essere il lasciapassare per ignorare le risoluzioni della comunità internazionale e le critiche all’annunciata, nuova occupazione della Striscia di Gaza.
Ma all’orrore si aggiunge la disperazione. Con disumano cinismo Hamas minaccia i palestinesi che riescono ad afferrare qualche briciola degli aiuti alimentari che filtrano dalla frontiera e aggrappa il suo destino agli israeliani rapiti e ancora occultati nella Striscia. intanto, le bombe continuano a cadere sui civili palestinesi e sulle loro infrastrutture. La parola pace sembra dimenticata e persino impronunciabile. Nulla sembra poter fermare questo progetto di distruzione dell’identità e della popolazione palestinese, neanche le grida dei parenti degli ostaggi israeliani in mano ad Hamas o la mobilitazione di israeliani che chiedono una tregua, un negoziato, un gesto che fermi gli eccidi e apra un tavolo negoziale. Ciò che sta accadendo e ciò che viene annunciato si configura come un crimine contro l’umanità che la comunità internazionale non riesce a fermare.
Accecato dalla forza del suo dispositivo militare, Israele non coglie questi segnali. In preda al delirio del “grande Israele” esteso dal mare al Giordano, non vede la malattia che ne sta corrodendo l’anima. Non vede i suoi ragazzi che nel nome del nazionalismo religioso sputano in faccia agli anziani palestinesi di Gerusalemme, non vede i militari che falciano i bambini, non vede la popolazione di Gaza che muore di fame mentre centinaia di camion carichi di cibo sono bloccati alla frontiera. Israele si definisce ed è riconosciuto come l’unica democrazia del Medio Oriente. Ma una democrazia deve operare entro i limiti dell’ordine internazionale e della ragionevolezza politica; una democrazia come quella nata dal sionismo e tante volte minacciata deve sapere che la sua sicurezza non è nella forza della più spietata ritorsione militare ma nella costruzione della pace con i propri vicini e persino con i propri nemici.
Era questa la scommessa del sionismo, era questa la sfida che ha animato i politici israeliani che hanno firmato accordi con i palestinesi e altri paesi arabi e che oggi vive nelle associazioni per la pace. Questo il sogno di una convivenza con i palestinesi che arriva a noi attraverso le pagine di autori i cui libri hanno aiutato a capire la complessa realtà israeliana. È questa la visione che nella Bibbia ebraica si sintetizza nella parola shalom. A denunciare il suicidio di Israele, della sua anima politica e morale – non necessariamente religiosa – sono mamme israeliane che scendono in piazza indignate per la politica del loro premier; militari o ex-militari sconcertati dai piani d’azione del governo Netanyahu; associazioni israeliane che lavorano con partner palestinesi per costruire una pace condivisa.
Sono una minoranza, certo, ma è l’unica voce di pace e ragionevolezza che ascoltiamo nei giorni dell’orrore e dello sgomento. La comunità internazionale che riconosce il diritto alla sicurezza e alla pace di Israele, proprio chi ama Israele, oggi dovrebbe agire per fermarne i piani politici, l’azione militare e il riarmo. Chiedere «pace per Gerusalemme» (Sal. 122, 6), come recita il salmista, significa imboccare questo strettissimo sentiero.
Questo è il testo della rubrica «Essere chiesa insieme» a cura di Paolo Naso andata in onda domenica 1° giugno durante il «Culto evangelico», trasmissione (e rubrica del Giornale Radio) di Rai Radio1 a cura della Federazione delle chiese evangeliche in Italia. Per il podcast e il riascolto online ci si può collegare al sito www.raiplayradio.it