“Adolescence”, la necessità di trovare un linguaggio d’intesa

Un dialogo tra padre e figlia sulla serie televisiva che sta facendo molto dibattere

 

Ho ceduto volentieri all’invito di mia figlia, Sara, a vedere con lei la serie “Adolescence” proposta dalla piattaforma Netflix, ideata da Jack Thorne e Stephen Graham (il secondo è anche uno dei protagonisti, il padre) che, inizialmente, non aveva attirato la mia attenzione. L’esperienza è stata così importante che ho voluto restituire qui, in forma di dialogo con lei, le nostre riflessioni su questo riuscito tentativo di parlare di adolescenza in modo consapevole, partendo dal dramma di un femminicidio.

 

Quattro episodi densi, impegnativi emotivamente, tutti girati in un unico piano sequenza che, ci spiega Sara (che studia multimedialità al Liceo) sono ognuno «un’ora intera di scena senza tagli, senza prendere fiato e senza nemmeno un singolo errore. Un’ora che scivola via come l’olio e che non sembra nemmeno senza pause, perché è talmente immersiva che ci si dimentica di non aver cambiato sequenza».

Al di là della questione tecnica – una scelta coraggiosa per l’impegno professionale che necessita, visto che la telecamera non “stacca” mai, quindi al primo errore bisogna ripetere tutto – la serie colpisce per la serietà con cui affronta il tema adolescenziale, cercando di comporre un mosaico di problematiche che questa età si porta dietro e che noi raggruppiamo, con troppa facilità, parlando di maleducazione da parte delle famiglie, disagio giovanile, mancanza di rispetto, utilizzando, insomma, tutte quelle scorciatoie rassicuranti per noi, che disegnano confini attorno un problema che confini non ha ed entro i quali potremmo trovarci, accompagnati da tutte le nostre sicurezze.

 

Perché questa è la storia della famiglia Miller, una famiglia come la nostra.

Chiedo a Sara quale sia il dialogo, la frase che più l’ha colpita e mi cita quella contenuta nel terzo, pesantissimo episodio, in cui una psicologa interroga, per tutta la durata, il tredicenne Jamie, autore del femminicidio: «la psicologa non si è lasciata intimidire dalla mascolinità tossica e dall’aggressività di un uomo che, nonostante sia molto piccolo, ha voluto affermare la sua autorità su di lei in quanto donna, che però rimane impassibile decidendo di non dimostrargli di aver paura di lui, trattenendo fino all’ultimo il suo stato di turbamento». Jamie, alla fine, urla furente, uscendo dall’interrogatorio: «Posso chiederti una cosa? […] Ti piaccio? […] Perché a me piaci. Non in quel modo. Non come se fossi attratto da te. Solo come persona. No, non ti piaccio nemmeno un po’? Cosa hai pensato di me, allora? Deciditi, dai! Non andare a dirgli quello che ho fatto, cazzo! Non osare! Non ti piaccio nemmeno un po’?? Cosa hai pensato di me, allora?? […]». Uno sfogo inquietante e allo stesso tempo rivelatore.

 

Che cosa pensi di Jamie? «Jamie è sicuramente un tipico adolescente, un ragazzo intelligente ma con tanti e seri problemi, ignorati e poi nascosti: innanzitutto la sua difficoltà nel gestire la rabbia (ma attenzione, solo con le donne) e i sentimenti; è irascibile e vuole a tutti i costi sentirsi superiore, questo a causa del suo complesso di inferiorità e la sua tremenda insicurezza mostrata chiaramente nelle ultime battute scambiate con la psicologa. Ciò dimostra che la salute mentale non va mai sottovalutata, nell’intero corso della vita di un individuo».

Nella narrazione, un ruolo fondamentale è giocato dalla famiglia, in particolare dal padre e dalla madre, che ne pensi? «La madre ha fatto da mediatrice, come una medicina per tutto quello che stava capitando alla sua famiglia, pian piano distrutta; poi il padre, che ha controllato la sua rabbia e il suo dolore, per poi scoppiare in un pianto negli ultimi minuti, tornando nella stanza del figlio, in cui tutto è iniziato. Entrambi mostrano che, in fin dei conti, non lo conoscevano affatto quel figlio che tanto amavano e di cui tanto si stavano preoccupando e che non hanno mai cercato di far realmente parte della sua vita; per questo hanno negato a loro stessi la realtà dei fatti fino all’ultimo minuto. Sembrava tutto così reale, tanto che ho quasi dimenticato che fosse tutta finzione».

 

Per quanto mi riguarda, oltre a tutto il resto, in un punto preciso mi sono sentito chiamato in prima persona: quando il poliziotto che indaga sull’omicidio viene preso da parte dal figlio, anch’egli studente nel college dei giovani protagonisti della vicenda, e gli confessa: “Papà sei fuori strada, non stai capendo quello che stanno facendo, qual è il problema!”. In quella sequenza, in cui è il figlio a convocare il padre, perché lo imbarazza vederlo brancolare nel buio di una realtà che non comprende, è racchiusa tutta la difficoltà di noi, come genitori, nel comprendere linguaggi e codici che stanno alla base della comunicazione di questa generazione. Certo, una difficoltà che non appartiene solo a questi tempi, ma che nuove forme di comunicazione di cui non sappiamo abbastanza hanno radicalizzato allontanandoli da noi. Difficoltà che ci interrogano, ci mettono in discussione, ci dicono che, forse, non investiamo abbastanza nel dialogare con loro ma liberi da pregiudizi e, soprattutto, giudizi.

 

Adolescence, ha il pregio di non avere la presunzione di dare risposte: ci apre una finestra, ci restituisce uno sguardo più ampio e l’opportunità di riflettere su questo mosaico così complesso, così troppo spesso raffigurante un dolore, una sofferenza che, guardando altrove o al piccolo tassello, non riusciremo mai a cogliere. Ci lascia, alla fine, con tante domande.