
In eredità, la pace
Speciale 80 anni dalla Liberazione. Intervista a Francesca Nuzzolese, pastora, docente della cattedra di Teologia pratica presso la Facoltà valdese di Teologia a Roma
È in distribuzione in tutto il territorio del pinerolese nell’area sud della provincia di Torino (lo trovate in centinaia di luoghi pubblici, dalle biblioteche ai negozi) il numero di aprile del mensile free press L’Eco delle valli valdesi che potete leggere integralmente anche dal nostro sito, dalla home page di di www.riforma.it.Il numero è pressoché interamente dedicato agli 80 anni dalla Liberazione dal regime nazifascista.
Questo mese, ci è sembrato importante proporre una riflessione che travalichi la ricorrenza storica (del 25 aprile), le date e i fatti da libro di storia, per re-immaginare non tanto la guerra ma quello che viene dopo: la ricostruzione, la riconciliazione e, possibilmente, la pace. Lo facciamo in un clima bellicoso, con alle spalle questi 80 anni che ci separano dal 1945, che sembrano dirigersi verso una conclusione. Non possiamo prevedere il futuro, ma possiamo fare attenzione a quello che succede, come singoli e come collettività, mentre intorno a noi i principi che hanno guidato l’occidente sembrano sgretolarsi con velocità crescente negli ultimi anni. Affidiamo una riflessione alla professoressa Francesca Nuzzolese, pastora, nuova docente della cattedra di Teologia pratica presso la Facoltà valdese di Teologia a Roma, che lavora anche nel campo della psicoterapia affrontando il tema dei traumi collettivi. Il suo approccio multi disciplinare dell’esperienza umana ci permette di mettere in relazione il vissuto individuale con quello di un gruppo di persone.
Quando un individuo si ritrova in uno schema comportamentale, per cui rimane bloccato in situazioni negative, che si ripetono ciclicamente, occorre trovare la chiave per scardinare ciò che all’origine lo ha avviato in questo pattern ripetitivo. A livello collettivo, si potrebbe dire che la guerra e i conflitti costituiscono un pattern comportamentale sociale. Se un individuo può uscirne, è possibile che anche gruppi o società intere intraprendano un percorso di consapevolezza? «Non solo è possibile, ma è urgentemente necessario. Ogni individuo ha la responsabilità di riconoscere i propri schemi comportamentali, attraverso un percorso terapeutico. A livello sistemico, sociale, il percorso è certamente più complesso, e richiede lavoro e intervento a più livelli, incluso quello psicologico ma certamente anche politico, economico e culturale. È necessaria una rottura delle dinamiche che ci siamo trasmessi di generazione in generazione, inclusa la propensione alla risoluzione dei conflitti attraverso la guerra. Pensare che l’unico modo per risolvere un conflitto sia riarmarsi, attaccare, usare l’aggressività o l’offensiva personale, significa che non abbiamo imparato, come collettività e civilizzazioni, altre possibilità. Le società si trovano in un circolo vizioso di replica dei modelli ricevuti dagli inizi dei tempi».
Quella dell’aggressività come risposta alla paura, dice la professoressa, è una predisposizione esistenziale, di sopravvivenza, che ancora ci caratterizza come specie umana, e che ci tramandiamo intergenerazionalmente, a livello individuale e collettivo, e che ci segnala “pericolo” e allarmismo anche in situazioni in cui un vero pericolo non c’è. Questo perché qualsiasi situazione traumatica, di estrema vulnerabilità o precarietà umana, predispone all’autodifesa. Però «in alcune nazioni si sono trovate strategie alternative con interventi positivi e costruttivi, per cambiare come la società gestisce l’aggressività. Già nella scuola elementare si insegna ai bambini come gestire i conflitti e come relazionarsi. Il sistema pedagogico in queste nazioni prevede un’attenzione importante allo sviluppo dell’intelligenza emotiva e relazionale; mentre in altre culture queste materie o strategie sono ignorate se non ridicolizzate».
Secondo gli studi di neurobiologia, la neuroplasticità del cervello permette a tutti, tutte, a qualsiasi età, di disinnescare questi meccanismi ancestrali. Abbiamo quindi la capacità di rifiutare l’eredità del terrore e di guidare il nostro cervello perché riconosca nell’altro non un pericolo ma (anche) un aiuto. Il lavoro, ricorda Nuzzolese, deve partire sempre da noi stessi, cercando di guarire i nostri conflitti interiori e rimarginare le nostre relazioni, cercando di trattarci con compassione, e umanizzando l’altro; ma è importante sottolineare che questo lavoro, di confronto con noi stessi e con le nostre paure, non dobbiamo farlo da soli. Le chiese hanno un ruolo importante, oggi come nel corso della storia, di farsi un modello di “pratica” di umanizzazione secondo il modello cristiano. Inoltre le chiese, sicuramente quelle protestanti italiane, conclude Nuzzolese, «hanno un mandato specifico che non si può negare. Una società o una nazione, per esempio l’Italia, può dire “no, non mi sento chiamata a essere generosa”, invece la Chiesa non può permettersi di dirlo. La nostra teologia cristiana, l’Evangelo, ci dice che anche quel poco che abbiamo va condiviso e non possiamo sottrarci ad adoperarci per la pace e per la riconciliazione».