
Résister. La colpa è sempre nostra
L’appuntamento di aprile con la nuova rubrica di Riforma, dedicata alle donne che resistono
Due ragazze giovanissime, Sara Campanella e Ilaria Sula, sono state uccise da coetanei. Vorrei poter scrivere di altro, ma in Italia la cronaca dei femminicidi non dà purtroppo tregua. Ad ammazzarle sono stati due ragazzi come loro, due ventenni che andavano all’università e le conoscevano bene: uno ha aggredito Sara con un coltello in mezzo alla strada, l’altro ha ucciso Ilaria, poi l’ha messa in una valigia e l’ha buttata in una discarica. Due figli di famiglie che ora dicono che non sanno perché lo hanno fatto. Non lo sanno: né gli assassini, né i genitori.
Due universitari, uno ossessionato da Sara, l’altro ex fidanzato di Ilaria: chi ci ricordano? Sì, proprio Giulia Cecchettin e Filippo Turetta, poi condannato all’ergastolo. A me ricorda anche la retorica spesa, i “mai più” e le risposte securitarie della politica, come se il deterrente per la violenza sulle donne fosse l’inasprimento delle pene per i responsabili e non un cambiamento che coinvolga l’intera società e porti gli uomini a ragionare sul proprio rapporto con la libertà e l’autodeterminazione delle donne, senza nascondersi nel “non mi riguarda”.
Anche la cultura pop ha una grande responsabilità quando si scandalizza per i testi di rapper come Tony Effe che oggettificano il corpo delle donne ma poi, con non poca ipocrisia, plaude alla retorica sanremese della passione (femminile) che tutto sopporta per amore. Per non parlare dei mezzi di comunicazione, che ancora raccontano i femminicidi come se fossero una problema delle donne: non solo andiamo in giro quando vogliamo e vestite come ci pare, ma ora scopriamo anche che non stiamo abbastanza attente a chi frequentiamo. Insomma, è sempre colpa nostra.
Da dove iniziare, allora? Magari istituendo l’ora di educazione sessuale e sentimentale a scuola, finora sempre respinta nel nostro paese perché “sono cose che si insegnano in famiglia” (con quale successo, è sotto gli occhi di tutti). E, già che ci siamo, rendendola obbligatoria anche nelle redazioni dei giornali.
«Prigione femminile dal 1730, la Torre di Costanza in Francia ospitò 88 donne colpevoli di non voler abbandonare la fede protestante. Marie Durand, incarcerata nella Torre per 38 anni, incise o fece incidere la parola résister, resistere».