Una pastorale per l’“età grande”

Come cambia la pratica ecclesiastica nel nostro Paese

 

Gli e le “over 65” costituiscono il 25% della popolazione italiana: una componente quantitativamente importante della società, che attira, a quanto pare, l’attenzione dei sociologi, anche per quanto riguarda gli orientamenti religiosi. Ecco, dunque, che l’Ipsos di Ferdinando Pagnoncelli pubblica alcuni dati interessanti riferiti alla pratica cattolico-romana, riassunti su Avvenire del 20 febbraio.

 

Il quotidiano della Conferenza episcopale sceglie di mettere in primo piano un elemento presentato come sorprendente: non è vero che le persone anziane frequentano la chiesa più intensamente delle altre; anche la cosiddetta “età grande” sperimenta una crescente disaffezione nei confronti di una pratica religiosa regolare. Ciò non corrisponde necessariamente a un crollo del rilievo che la dimensione religiosa e “spirituale” (qualunque cosa questo secondo aggettivo significhi) assume nell’esistenza: essa, però, non si traduce in una pratica strutturata: la dimensione liturgica e la “religione organizzata” non riescono, sembra, a intercettare le domande dette “esistenziali”, che pure persistono.

 

Andando più in dettaglio, si scopre però che il quadro è più complesso: intanto, occorre distinguere le diverse aree geografiche, con il Sud e le isole dove la frequentazione ecclesiastica si mantiene su livelli alti (fino al 40% per la messa domenicale), mentre il Nord-Est vede cifre assai basse (addio al “Veneto bianco”, si direbbe). Inoltre, si registra una differenza consistente all’interno degli over 65: i più “frequentanti” sono gli over 80, mentre le percentuali scendono man mano che ci si avvicina ai “giovani anziani” (tra i 67 e i 70); per altro verso, le persone religiosamente più consapevoli, frequentati o meno, sarebbero più “felici” (il dato è però associato a quello che vede i benestanti più felici dei poveri, che suona poco evangelico, ma anche poco sorprendente…).

 

Riassumendo: all’interno del generale e consistente calo del tasso di appartenenza ecclesiastica, si assiste a un fenomeno di allontanamento dalla pratica che coinvolge anche le persone non più giovani, che hanno ricevuto, nel secondo dopoguerra, un’educazione cattolica strutturata. Una ricerca italiana non può che concentrarsi sulla chiesa sociologicamente più significativa nel nostro paese. Quello che sappiamo dell’esperienza tedesca, tuttavia, mostra che i fenomeni sono analoghi in entrambe le confessioni occidentali, più intensi in ambito evangelico, in quanto la disciplina cattolica risulta leggermente più resistente ai processi di disgregazione dell’appartenenza consapevole e della frequentazione.

 

Coloro che non amano le indagini socio-religiose osserveranno che, per rilevare l’esigenza di una pastorale della vecchiaia, non c’era bisogno di Pagnoncelli. Sta di fatto che, per quanto ne so, tale pastorale, nelle nostre chiese, non è oggetto di una riflessione che vada al di là della richiesta, rivolta a pastori e pastore, di “fare più visite”. È evidente che, specie in un contesto di diaspora, la visita pastorale (che non necessariamente è effettuata da un pastore o da una pastora) resta essenziale e l’aspetto quantitativo non deve essere banalizzato: da questo punto di vista, una programmazione seria delle visite, con obiettivi quantificati e periodicamente verificati è una priorità di ogni consiglio di chiesa o concistoro.

 

Una pastorale degli anziani, tuttavia, ha un orizzonte più ampio. Indico solo una dimensione: Pagnoncelli stesso rileva che in una certa percentuale di casi la frequenza “fisica” è sostituita da quella a distanza, che per la Chiesa cattolica è anzitutto televisiva, per noi telematica (nel frattempo, anche noi anziani abbiamo imparato a usare le piattaforme di comunicazione). Per la verità, dopo gli esperimenti lanciati (in primo luogo con iniziative “private”) durante la pandemia, non c’è stato un lavoro critico e organizzato sull’integrazione della telematica nella pastorale: si è proceduto in ordine sparso. In ogni caso, abbiamo capito un po’ tutti e tutte che tale integrazione non può ridursi al culto trasmesso in streaming, ma ha bisogno di maggiore articolazione. L’osservazione, ovvia, ma pigra e reazionaria, in base alla quale la telematica non può sostituire l’incontro fisico, introduce un’alternativa sciocca che si trasforma in scusa per l’immobilismo. In realtà, la semplicità tecnica e i bassi costi delle nuove tecnologie favoriscono la creatività.

 

Non ritengo che la prima cosa da fare sia un convegno sulla pastorale dell’“età grande”: credo invece che tocchi alle comunità lavorare, sia sul piano teologico sia su quello organizzativo, per integrare la tradizione, basata sulla visita, con altre forme di comunicazione e coinvolgimento. Chi si è trovato a sperimentarle, ne ha colto le potenzialità di sviluppo: naturalmente non sono magiche né risolutive, ma hanno una loro efficacia. Le chiese, lo sappiamo, sono ancora più anziane della società, il che rende superflua ogni considerazione sull’urgenza di un simile compito.