Corridoi umanitari: la storia di Arifa e di Sediqa
Reportage di Maurizio Franco e Giovanni Culmone per l’associazione Carta di Roma con il supporto dell’OttoxMille della Tavola Valdese
L’umidità vibra attorno ai cerchioni dei fari che illuminano a giorno il campo da calcio. Arifa, appoggiata al palo della porta, ha lo sguardo fisso sulle compagne di squadra: gli scarpini che affondano nella terra battuta, i muscoli intirizziti dal freddo invernale, il pallone che scompare nella nebulosa di corpi ammassati lungo la linea di tre quarti. Indossa la maglia dell’Argentina, quella di Lionel Messi con il numero “10” stampato tra le righe verticali, bianche e azzurre. Gliel’ha riportata un suo amico di ritorno dai mondiali in Qatar, è una delle poche cose che si è portata con sé. Tutto – il tifo, l’ammirazione per il giocatore, l’euforia davanti ai dribbling – è cominciato in Afghanistan, il suo paese di origine. Lì di sport ne ha praticati parecchi. Oltre al calcio, il ciclismo. «Ho gareggiato a livello agonistico e sono entrata a far parte del team nazionale», puntualizza, quasi a rivendicare, sorridendo, la veridicità di quel ricordo. Le pedalate ci sono state sul serio, sembra dire, non sono frutto della sua fantasia.
Perché poi sono arrivati i talebani, il 15 agosto 2021, hanno preso il potere cancellando in pochi giorni la Repubblica islamica nata dopo l’invasione statunitense del 2001. E con essa le aspirazioni e i desideri di Arifa, nata anche lei dopo la guerra, nel 2002. Kabul è caduta, Bamiyan, la città dove è cresciuta con la famiglia, famosa per il sito archeologico con le statue del Buddha scolpite nella roccia, distrutte vent’anni prima dagli stessi che di lì a poco avrebbero imposto un regime fondato sull’apartheied di genere e sul fondamentalismo religioso, è caduta. Arifa sapeva delle persecuzioni, aveva ascoltato i racconti, le storie tragiche di un passato pronto a sfogare le proprie frustrazioni. Per questo, quando le hanno paventato la possibilità di uscire dall’Afghanistan, non ci ha pensato due volte ed ha attraversato il confine con il Pakistan.
«La mia terra è abitata da diverse etnie come i pashtun, i tagiki e gli hazara. Io faccio parte di quest’ultima minoranza», spiega. Gli hazara, oppressi e massacrati da sempre, con stupri e violenze massive che hanno costellato l’ultimo secolo. A settembre 2022, un attentato suicida ha colpito il centro educativo Kaaj, a Dasht-e-Barchi, quartiere a sud di Kabul, epicentro della comunità hazara nella capitale, mietendo decine di vittime tra studenti e studentesse che si stavano preparando per i test d’ingresso all’università. Avevano la sua stessa età.
Arifa, però, non avrebbe mai immaginato che si sarebbe ritrovata ad oltre 6mila chilometri di distanza dalle vallate di Bamiyan, dall’altra parte del globo, a Roma, nel quartiere Pietralata, ad allenarsi con il pallone al campo sportivo XXV aprile, gestito da Liberi Nantes, un’associazione sportiva dilettantistica che della solidarietà sociale ha fatto una bandiera, recuperando uno spazio abbandonato e restituendolo alla collettività. E non avrebbe mai immaginato che l’essere donna e per giunta hazara non avrebbe comportato alcunché in terra straniera. «Qui in Italia, appena mi vedono, pensano che io venga dalla Cina o dalla Mongolia», ironizza, si indica il volto e si sofferma sulla forma allungata degli occhi, gli zigomi alti e pronunciati, il colore chiaro della pelle. «Non credono che io sia afghana». Si sente fortunata ad avere la possibilità di portare avanti le proprie passioni, una consapevolezza che a volte sfocia nel senso di colpa.
E in alcuni casi nella depressione. Le capita quando parla con le amiche che non sono potute fuggire e si ritrovano ora chiuse in casa a non fare nulla, senza poter studiare né lavorare. «Conosco molte ragazze che si sono suicidate per non vivere quella situazione». Arifa mantiene un tono pacato e lucido: la scelta sofferta di ridurre le interazioni con il suo paese d’origine è la più sofferta. «Io ho un’opportunità che le mie amiche non hanno. È come mettersi a correre davanti a una persona malata che non può nemmeno camminare».
Arifa è da circa 2 anni nel nostro paese. Parla fluentemente inglese, spiccica qualche parola in italiano. Frequenta la facoltà di Engineering Sciences all’Università di Tor Vergata. Quest’anno ha vinto una borsa di studio ed è assegnataria di un posto alloggio nella residenza “Boccone del povero”, a ridosso del Grande raccordo anulare (Gra), l’atollo di asfalto che circonda Roma. È dentro l’ecosistema universitario, nel turbinio delle lezioni, ne è avvolta, si barcamena con libri ed esercizi di calcolo, con i compagni di corso, tra una pausa caffè e un po’ di svago tra le vie della metropoli che piano piano inizia a mappare. Una vita normale per una ventenne fuori sede. «Chissà poi dove andrò, una volta terminati gli studi». Di una cosa è certa, però: la bicicletta è parcheggiata nel cortile interno dello studentato. È rossa fiammante. Arifa è viva ed è qui grazie ad un corridoio umanitario.
I corridoi umanitari
Dal febbraio 2015, lo Stato italiano – e nello specifico il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale e il dicastero degli interni – ha firmato una serie di protocolli in primis con la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), la Tavola Valdese e la comunità di Sant’Egidio e poi con la Caritas e l’Arci per favorire l’ingresso, in modo legale e sicuro, di migranti in condizioni di particolare vulnerabilità, potenzialmente beneficiari di protezione internazionale. Da allora, oltre 7.500 persone hanno varcato le frontiere tricolore con i corridoi umanitari. Un esperimento tutto italiano, replicabile in Europa, come è accaduto in Francia e in Belgio.
Il primo protocollo ha permesso a mille profughi siriani, nel frattempo in Libano, di espatriare. L’accordo è stato rinnovato più volte garantendo una via di uscita ad altri 2mila per l’Italia. Nel 2021, 500 subsahariani, rifugiati in Libia, identificati e segnalati da Unhcr, sono partiti. Nello stesso anno è stato siglato il protocollo Afghanistan: in 1.200 si sono imbarcati, dopo aver ripiegato in Iran e in Pakistan, con voli umanitari allestiti dall’Ong Open Arms e dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). Mirzaie era tra questi.
«Noi lavoriamo con una rete capillare di associazioni che opera nei territori di partenza. Difficilmente prendiamo auto-segnalazioni perché a volte sono più difficili da verificare. Le associazioni con cui collaboriamo conoscono i casi, le famiglie, le difficoltà, avviano i colloqui e stringono legami. Con loro siamo in grado, insieme alle istituzioni e alle autorità consolari, di costruire un percorso solido che porti all’Italia e alla richiesta d’asilo». Marta Bernardini è seduta dietro una scrivania, attorniata da carte e faldoni. Il suo ufficio è incastonato in una palazzina del centro storico di Roma, che ospita la sede centrale della Fcei. È coordinatrice di Mediterranean Hope (MH), il programma per i migranti e i rifugiati della Federazione, creato all’indomani della strage del 3 ottobre 2013, quando 386 persone morirono nel naufragio di fronte alle coste dell’isola di Lampedusa. Un programma che, a sua volta, ha dato vita a diversi progetti tra cui l’ostello sociale “Dambe So” – “casa della dignità” in lingua bambara – a San Ferdinando, in Calabria, per dare alloggio i lavoratori braccianti della filiera agrumicola, e la casa delle culture a Scicli, in Sicilia, per fornire un supporto ai migranti più fragili. Oltre ad essere in prima linea sulla rotta balcanica e in tutti quei luoghi di frontiera della fortezza Europa dove i diritti vengono meno. Come a Lampedusa, con l’Osservatorio sulle migrazioni che svolge un lavoro di assistenza, mediazione e ricerca.
Mediterranean Hope è l’asse portante dei corridoi umanitari per conto della Federazione, finanziati in larga parte con l’8xmille delle chiese valdesi e metodiste e “sempre più da altre comunità protestanti in Italia e all’estero, da altre realtà religiose, reti ecumeniche internazionali e da raccolte fondi”, come si legge sul sito di MH. Bernardini spiega che i profughi vengono accolti su tutto il territorio nazionale, «in centri piccoli, l’idea è quella dell’accoglienza diffusa, evitando grandi concentrazioni, in sinergia con le comunità e le organizzazioni solidali per rispondere puntualmente ai bisogni delle persone prese in carico». Sono accompagnate e sostenute dal punto di vista economico, giuridico, lavorativo e sanitario. E psicologico: successivamente all’arrivo emergono traumi soffocati dall’ansia, dalla volontà di sopravvivere che silenzia il dramma patito di una migrazione forzata verso l’ignoto, di una separazione inaspettata da familiari che rimangono nei paesi da cui si scappa. Senza avere la possibilità di scegliere. «Noi cerchiamo di renderli responsabili del processo di integrazione, mitigando col tempo la relazione assistenzialista per la quale senza di noi non riuscirebbero a trovare la strada giusta, anzi ci concentriamo proprio sul potenziamento delle loro capacità»
L’obiettivo è il raggiungimento della semi o della piena autonomia «in 18 mesi, questa è la media, in base anche a chi abbiamo davanti», sottolinea Bernardini. «Per quanto riguarda gli afghani, ad esempio, molti sono giovani, studenti e studentesse, conoscono le lingue, si inseriscono più facilmente in percorsi di formazione, alcuni, invece, hanno alle spalle un bagaglio professionale importante». In Italia, però, le contraddizioni sono molteplici. Il riconoscimento dei titoli di studio è una chimera che attanaglia molti stranieri che devono riciclarsi poi in un mercato del lavoro stagnante, reinventarsi in un paese che non offre abbastanza opportunità. «L’impatto psicologico è pesante, è frustrante ricominciare da zero in un mondo nuovo con regole nuove. Così in tanti decidono di andare altrove». Altri, invece, optano per restare.
“Andrà tutto bene”
Sediqa Mushtaq si era messa il burqa, nonostante lo odiasse con tutta se stessa, per nascondere la propria identità e scomparire agli occhi dei talebani che pattugliavano le strade. Aveva preso l’indispensabile per scomparire: soltanto due valigie per ammucchiare un’intera vita. Dentro aveva appallottolato anche la bandiera della Repubblica islamica dell’Afghanistan. Direzione Pakistan con figli e marito al seguito. Quella notte di settembre del 2021, ricorda, Kabul era tramortita da un silenzio irreale. Le avevano detto che sarebbe andato tutto bene. Sul social X, Mushtaq aveva contattato una giornalista italiana, «una cara amica, come una sorella», che ha aperto un varco con la Fcei e alla possibilità dei corridoi umanitari.
Il tempo stringeva. Il regime ancora non aveva il pieno controllo delle frontiere. Nel tragitto, però, era apparso un posto di blocco. Andrà tutto bene, ripeteva ai figli stipati in macchina. Un miliziano rovistando nella valigia aveva trovato la bandiera. Quella issata dai talebani è bianca con al centro le scritte nere della Shahada, la professione di fede musulmana. Il miliziano baciò il vecchio drappo, li fece andare via, come se niente fosse. Una volta in Pakistan, trascorse 10 giorni a sbrigare le ultime faccende burocratiche con l’ambasciata italiana. Visti e documenti per espatriare.
Un aereo, il 4 ottobre 2021, la fece atterrare in Italia.
«Mi sono portata dietro il Burqa», dice tenendo l’abito azzurro tra le mani. «Non voglio dimenticare il motivo per cui io sono scappata dal mio paese. Lo guardo e penso alle tante lotte che dobbiamo ancora fare per la liberazione delle donne in Afghanistan». Sadiqa Mushtaq ha 38 anni, ne ha vissuti 16 in Iran, durante il conflitto con l’Unione Sovietica. E poi di nuovo in Afghanistan. Ha lavorato come ostetrica, si è laureata, ha gestito una clinica con altri professionisti, ha insegnato in un istituto privato. Il marito, un infermiere, aveva studiato in Iran. Mushtaq era membro del board dell’Afghan women’s chamber of Commerce and Industries. Era una professionista accreditata.
Adesso ha firmato un contratto a tempo determinato in una residenza per anziani dopo aver superato a settembre l’esame per diventare un operatore socio sanitario (Oss). Abita in un quartiere di nuova costruzione nel quadrante meridionale di Roma. Un appartamento a due piani in affitto che si affaccia sulla campagna puntellata, qua e là, da condomini. Mushtaq è seduta con i gomiti appoggiati sul tavolo del salone. I figli vanno a scuola, parlano perfettamente l’italiano, «meglio di noi», sottolinea orgogliosa. Il marito è alle prese con la patente di guida e i crediti necessari per accedere alla sua professione. Serve tempo, è una frase che ricorre spesso nei loro discorsi. «Siccome l’attuale governo afghano non è ufficialmente riconosciuto, la mia laurea in ostetricia non vale niente», dice Mushtaq. Ha fatto tradurre in italiano i pezzi di carta, si è arrovellata con cliniche legali e gli uffici dell’Unhcr. Niente, la risposta è stata sempre la stessa: non si può fare. La frustrazione è la cifra del suo disagio.
L’aiuto della Fcei, dice, è stato fondamentale per iniziare la vita che nessuno di loro si aspettava. «Il primo anno è stato complicato. C’era la pandemia da Covid-19. Non potevamo abbatterci, però, e siamo andati avanti». Viveva a Trastevere, all’epoca, nel ventre monumentale di una città che di lì a poco si sarebbe schiusa ai suoi occhi. Ha frequentato la Scuola di Lingue e Cultura italiana della comunità di Sant’Egidio e il centro islamico in zona Tuscolana. Qui ha conosciuto altri rifugiati afghani, ha intessuto relazioni con la diaspora afghana. Come Mirzaie, ha iniziato a mappare Roma, sciogliendo la matassa urbana sotto le suole delle scarpe. «Quando abbiamo visto il Colosseo per la prima volta, siamo rimasti a bocca aperta, incredibile», racconta Mushtaq. I figli erano estasiati: quel giorno hanno macinato chilometri per le viuzze del centro alla ricerca del tempo perduto. Il Celio, rione Monti, Garbatella, Testaccio. E poi piazza Vittorio, con il mercato Esquilino, i banchi al coperto straripanti di cibo e spezie provenienti da tutto il mondo. Il meticciato gastronomico. «Lasagna, pizza bianca e supplì, ok. Ma vuoi mettere il piacere per il kabuli Palau», commenta riferendosi alla leccornia afghana con il riso basmati, il pistacchio e la carne di agnello.
Mushtaq non si è limitata a Roma. Napoli con il murales di Diego Armando Maradona, l’altro numero 10 della nazionale argentina, che si staglia tra i gorghi dei quartieri spagnoli. Lecce e Macerata. Ha visitato l’Olanda, la Germania, la Danimarca, mentre il marito rimaneva a casa ad accudire i figli. «In Afghanistan succedeva il contrario. Lui viaggiava per lavoro e io mi trattenevo a Kabul». Ironia della sorte. Mushtaq ha girato in lungo e in largo – e lo fa tuttora – per raccontare la tragedia che il suo paese sta subendo, le conseguenze del dominio maschile sul corpo delle donne. Con altre sei afghane hazara, giunte in Italia agli esordi di settembre 2021, ha creato l’Associazione di solidarietà donne per le donne (Asdd) e intessuto una rete internazionale di attiviste per i diritti umani. Obiettivo? Fare pressione alle istituzioni e fungere da sponda politica per chi è costretto in patria. Per Mushtaq nessuno deve rimanere indietro, lo ribadisce pensando alle amiche della figlia che non possono più andare a scuola. Nonostante l’imprevedibilità delle esistenze. «Mi manca l’Afghanistan. Mi manca la vita precedente», rivela con gli occhi umidi. «Il mio presente, oggi, è l’Italia».