Noi che la violenza la raccontiamo
I nostri media sono più attenti alle donne. Lo dicono i primi dati dell’Osservatorio che ha messo insieme le ricercatrici dell’Università La Sapienza di Roma con le giornaliste della Fnsi, dell’Ordine, dell’Usigrai, dell’associazione GiULiA
L’articolo che segue è scritto da Silvia Garambois, già presidente di GiULiA giornaliste ed è tratto da Articolo 21.org.
E alla fine sono le giornaliste e i giornalisti a raccogliere tutta questa violenza per raccontarla sui loro giornali, alle loro tv. Trasformare la cattiveria che uccide, che fa subire alle donne il male (gli stupri, le botte, la violenza economica e psicologica), in parole. Nelle parole giuste: quelle che non provocano nuovo dolore, quelle che non difendono a oltranza «lui» anche senza volerlo – era ubriaco, aveva perso il lavoro, stava male – ma che sanno spiegare cosa ci sta succedendo.
In un mondo che è sempre più crudele, è con grande timidezza che portiamo qualche elemento positivo: sì, i nostri media sono più attenti alle donne. Lo dicono i primi dati dell’Osservatorio Step – ricerca informazione, guidato dalla prof. Flaminia Saccà, che ha messo insieme le ricercatrici dell’Università La Sapienza di Roma con le giornaliste della Fnsi, dell’Ordine, dell’Usigrai, dell’associazione GiULiA (i primi dati verranno presentati in Fnsi il prossimo 27 novembre).
Lo dice l’esperienza di chi con la rassegna stampa continua a lavorare… Non ci sono più le violenze di «Serie A» e di «Serie B» (lo abbiamo visto in queste settimane, di fronte a due spietati assassini che hanno trucidato due prostitute, dove i nostri media non solo non hanno mai adombrato che «se l’erano andate a cercare», ma soprattutto non hanno avuto dubbi nel denunciare l’assassino).
Quando nel 2011 le giornaliste di GiULiA cominciarono a lavorare sul linguaggio dei giornali, e ancora quando nel 2017 abbiamo varato, tutte e tutti insieme, il «manifesto di Venezia», di fronte a un atto violento i giornali usavano a man bassa nei titoli il termine «raptus».
Insomma: «lui non avrebbe voluto, gli è venuta così». Soprattutto nei tribunali questa «giustificazione» contava meno di nulla, visto che l’art.90 del Codice penale parla chiaro quando avverte che gli stati emotivi e passionali «non escludono, né diminuiscono l’imputabilità̀». Ed era tutto un fiorire di «gelosia, di passione, di smodato amore…». Ma quale amore, se ti picchia, se ti uccide?
Ecco: nei nostri giornali questi termini, per carità, continuano a spuntare fuori, ma sono pochi, residuali, residui. Poi ci sono colleghe e colleghi che prediligono utilizzare il maschile parlando della Presidente del Consiglio o della Ragioniera dello Stato, in ossequio a una volontà politica e non grammaticale. C’è chi si sente sdoganato alle peggio considerazioni sulle donne, come il vicedirettore di Rai Sport Massimiliano Mascolo, che in queste ore ha suscitato indignazione pubblicando un post in cui definisce le sportive e le campionesse «Le volenterose suffragette delle cause inutili».
Continuiamo a credere che utilizzare le parole giuste, quelle che raccontano la verità, sia il nostro compito. C’è un mondo meno cattivo che ha bisogno di buona informazione.